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Siamo capaci di riconoscere le nostre emozioni?

Le emozioni sono fenomeni complessi che comportano cambiamenti sia psicologici che fisici in grado di influenzare pensieri e comportamenti. La loro funzione è altamente adattiva, ci informano infatti sul raggiungimento o meno dei nostri obiettivi e ci permettono di stare in relazione con gli altri.

Ma così come sono importanti per le nostre possibilità di sopravvivenza, allo stesso modo in alcuni casi possono drasticamente ridurla spingendoci ad adottare comportamenti pericolosi e disfunzionali.

Mentre alcune persone riescono senza difficoltà ad identificare il proprio stato emotivo (sanno cioè se sono felici, tristi, arrabbiate, deluse ecc.), altre mostrano una difficoltà nel riconoscimento dell’emozione che stanno provando (spesso tendono a sentirsi semplicemente “bene/male”) e non solo non riescono a darle un nome ma non ne riconoscono neanche i sintomi andando incontro ad uno stato di confusione generale che non permette loro di gestire il fenomeno emotivo. In effetti il primo passo per la gestione emotiva è proprio il riconoscimento di ciò che stiamo provando, ma come facciamo a riconoscere le emozioni? Possiamo contare su tre importanti indicatori:

1) L’aspetto cognitivo: quali pensieri/immagini/ricordi sono presenti nella nostra mente in un determinato momento?

2) L’aspetto comportamentale: quale azione vorremmo compiere, quale comportamento mettere in atto?

3) Le modificazioni interne o sensazioni.

Poniamo ad esempio che un amico disdica una cena a cui tenevamo tantissimo e cerchiamo di identificare l’emozione che stiamo provando in base ai tre aspetti di cui abbiamo appena parlato:

1) Pensiero: “Non gli importa nulla di me, avrà preferito una compagnia migliore della mia”

2) Comportamento: “Resto tutta la sera a casa, non voglio parlare con nessuno”

3) Perdita dell’appetito, spossatezza, pesantezza degli arti.

Mettendo insieme queste informazioni possiamo chiamare la nostra emozione “Tristezza”. Identificare l’emozione è molto importante perché ci permette di poterla gestire e regolare e questo vale anche quando veniamo a contatto con le emozioni di altre persone, basti pensare alla capacità che la mamma ha di poter discriminare il tipo di pianto del proprio bambino, se si tratta cioè di un pianto di fame, di rabbia, di paura ecc. L’identificazione emotiva ci rende in grado di poter anche prevedere le reazioni degli altri e poter prevedere come aiutarli a gestire le loro emozioni. È proprio l’intelligenza emotiva che ci rende in grado di sapere che se un nostro amico ad esempio è spaventato, una rassicurazione lo potrebbe tranquillizzare, così come congratularsi con qualcuno per un successo raggiunto aumenta in lui l’autostima e il senso di gratificazione.

Una volta identificata la propria emozione si passa a cercare di individuarne le possibili cause e conseguenze. Questo lavoro non è molto facile, spesso infatti siamo abituati ad attribuire la causa delle nostre emozioni a fenomeni esterni e ci interroghiamo poco su quali siano le vere cause dei nostri stati mentali.

Il riconoscimento emotivo quindi è la competenza di base che ci permette di poter gestire le nostre emozioni. Questo diminuisce la probabilità di poter sviluppare un disturbo psicologico (come ad esempio la depressione o i disturbi d’ansia) ed è un fattore molto importante nella costruzione e nel mantenimento delle nostre relazioni interpersonali. Del resto il concetto di benessere psicologico non implica l’assenza di emozioni negative ma la capacità di viverle e sfruttarle nel modo più funzionale, riuscire nel piano personale, professionale e relazionale senza farsi sopraffare dall’aspetto emotivo ma riuscendo ad utilizzarle per quello che sono: strumenti di conoscenza del nostro mondo.

“Questione di principio”: quando la rigidità ci danneggia

sensounicoA quanti sarà capitato nella vita di dire o sentire: “Non mi importa, è una questione di principio”?

Spesso ci aggrappiamo a convinzioni che abbiamo appreso o che ci sono state trasmesse come se fosse l’unica alternativa che abbiamo, come se non ci fossero altri modi di affrontare il problema. Questo accade quando tendiamo a concepire la realtà unicamente così come appare ai nostri occhi, quando siamo convinti che il nostro modo di concepire un problema o una situazione sia l’unico giusto o adeguato e quindi l’unico da adottare e non prendiamo in considerazione altri punti di vista.

Nella vita, i principi morali sono molto importanti, li impariamo sin da piccoli e ci vengono trasmessi dalla cultura e dalla nostra famiglia. Hanno un enorme valore adattivo, guidano il nostro comportamento e facilitano le nostre relazioni.

Può accadere tuttavia che la coerenza verso il rispetto assoluto di un principio possa danneggiarci, ma non sempre ce ne rendiamo conto. Attenersi a un’idea, una convinzione o ad un progetto originario con assoluta fermezza non vuol dire essere “coerenti con sé stessi” bensì “rigidi”. Essere coerenti con sé stessi implica la consapevolezza di ciò che pensiamo, proviamo e delle conseguenze del nostro modo di comportarci. Essere rigidi invece ci fa guardare il mondo secondo una sola tonalità, non ci permette deviazioni dal percorso prefissato, la nostra esplorazione è condizionata e limitata. Il pensiero rigido è un tipo di pensiero povero, fondato su dogmi o verità immodificabili e di conseguenza poco produttivo, poco creativo.

È molto importante invece cercare di essere flessibili. La flessibilità ci permette di essere indulgenti, non solo verso gli altri ma anche verso noi stessi. Se adottiamo uno stile di pensiero caratterizzato da inflessibilità tenderemo a non perdonare gli altri ma neanche noi stessi e a giudicare ogni deviazione dai nostri schemi come pericolosa o fallimentare. Il nostro modo di stare in relazione risentirà spesso dell’insoddisfazione o frustrazione dell’altro per la nostra mancanza di elasticità.

Abbandonare un principio o una convinzione non vuol dire rinunciare a una parte della propria identità o essere dei traditori verso i propri valori, vuol dire al contrario arricchirsi, aggiornare la propria conoscenza e migliorarsi. Cambiare idea non è pericoloso, è al contrario molto importante ma di solito è ostacolato da emozioni di orgoglio, vergogna o colpa che spesso condizionano le nostre scelte e la nostra libertà decisionale.

Cerchiamo quindi di affrontare gli eventi di vita per come sono e non per come dovrebbero essere secondo noi. Non consideriamo il nostro modo di vedere il mondo come l’unico, chiediamo all’altro quale sia il suo, ricordiamoci che le relazioni sono enciclopedie di conoscenza.

Darwin ci ha lasciato un grande insegnamento: “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.

La rigidità impedisce il cambiamento. Se non c’è cambiamento risulta difficile non solo l’adattamento ma anche la possibilità di migliorarsi.

Perché siamo scaramantici?

Il pensiero magico o scaramantico è una delle forme di pensiero più semplici e primitive: la mente stabilisce un’associazione tra diversi fattori, in particolare ricerca tra loro un nesso di causalità.

Esempi di pensiero magico sono:

  • Gatto nero che attraversa la strada porta sfortuna;
  • Mettere lo stesso vestito tutte le volte che ho un colloquio di lavoro/esame/visita medica porta fortuna;
  • Lo sposo non deve vedere la sposa prima della cerimonia altrimenti non si sposeranno/avranno sfortuna.

scaramanziaIl razionale alla base del pensiero scaramantico è la credenza di poter esercitare un controllo seppur minimo sulla realtà, questo tende ad abbassare la sensazione di incertezza degli eventi e del loro effetto mantenendo l’illusione di poterli in qualche modo determinare o scongiurare.

Il pensiero magico tende ad auto mantenersi nel tempo. Se infatti l’evento temuto non si verifica, tendiamo a pensare che la causa di tutto ciò dipenda proprio dal nostro comportamento, se al contrario però il nostro rituale non ha avuto l’effetto sperato non tendiamo a dubitare della sua validità ma cerchiamo tutte le possibili spiegazioni o cause che ne hanno impedito il funzionamento.

Il pensiero magico è quindi un errore logico di ragionamento generato da uno dei timori più ancestrali dell’uomo: l’imprevedibilità della vita che porta al bisogno di controllo. È una forma di pensiero primitivo e immaturo, paragonabile a quello dei bambini che attribuiscono un’anima agli oggetti (animismo) o che pensano di avere effetti sulla realtà compiendo un’azione (partecipazione magica). Queste forme di pensiero vengono poi abbandonate con lo sviluppo del pensiero razionale che analizza gli eventi e le possibili cause contemplando varie alternative e stabilendo una corretta attribuzione di causalità.

Tutti hanno forme di pensiero magico, la cultura, la religione, la famiglia trasmettono vari tipi di pensieri scaramantici che si protraggono nel tempo. Non possiamo definirla una forma di pensiero dannosa per l’uomo, a patto che non diventi però l’unica o la prevalente, come accade ad esempio nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo, dove la persona percepisce l’obbligo di mettere in atto determinati comportamenti per scongiurare ciò che più teme con l’effetto di avere gravi e pesanti limitazioni nella vita quotidiana.

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