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Perché ci arrabbiamo?

rabbiaLa rabbia è l’emozione che proviamo quando percepiamo di aver subito un torto, un danno o quando qualcuno o qualcosa ci impedisce di raggiungere un nostro scopo.

È un’emozione molto importante perché informa l’altro che ciò che ha fatto viene giudicato negativamente o è dannoso. Anche se la rabbia viene valutata in modo negativo dalla maggioranza delle persone e spesso chi si arrabbia si giudica o viene valutato come una persona incapace di controllare le emozioni, in realtà, non possiamo non provarla, le emozioni infatti colorano il nostro modo di stare al mondo e danno forma, valore e priorità a ciò che ci circonda.

È usanza comune nelle varie relazioni (tra partner, tra genitori e figli, tra fratelli), rispondere alla rabbia esortando la persona a “non arrabbiarsi, non prendersela o non esagerare”. Sicuramente, essendo un’emozione molto attivante, la rabbia ci spinge ad agire, il nostro corpo è pronto ad un atto riparatore di un’ingiustizia subita e percepiamo un forte impulso a compiere un’azione. Spesso ad essere problematica è solo la modalità con cui viene espressa, come ad esempio l’utilizzo dell’aggressività. Il problema diventa dunque quello di esprimere la rabbia in un modo più funzionale, che non crei ulteriori problemi, che aiuti a risolvere la situazione senza peggiorarla. Sarebbe meglio evitare di dire frasi come “non ti arrabbiare, non esagerare” e mostrare comprensione dicendo ad esempio “ti capisco, comprendo il tuo stato d’animo”, “ti aiuto a pensare ad una soluzione”, “cosa ti farebbe stare un po’ meglio?”.

Questo ha l’effetto di promuovere un senso di legittimità di ciò che stiamo provando, facilita la comunicazione e non aggrava la situazione. Spesso infatti giudicare inappropriata la rabbia diventa un ulteriore peso per chi si trova già nel mezzo di un’emozione attivante, non aiuta a diminuirne l’intensità ma addirittura la può accrescere.

Il rimprovero come strumento educativo

bimbo-300x225Il rimprovero è un atto educativo che ha l’obiettivo di sanzionare una condotta o un modo di fare giudicato inopportuno, la sua funzione è quindi quella di correggere un comportamento ritenuto sconveniente o nocivo, non in linea con alcuni standard adottati da chi muove la critica.

Essendo uno strumento educativo, non si può non tener conto della modalità con cui viene attuato e degli effetti che questo comporta sul bambino.

Se da un lato è vero che non rimproverare un bambino non gli dà l’opportunità di comprendere quali comportamenti non deve ripetere, dall’altro troviamo a volte rimproveri che non riescono a raggiungere l’obiettivo per cui sono effettuati. Spesso capita infatti di compierlo con una modalità aggressiva che diventa controproducente.

Quali sono quindi le caratteristiche di un rimprovero adeguato?

  • Riferirsi solo a ciò che è accaduto senza generalizzare: un comportamento errato o sbagliato non implica che il bambino sia “cattivo”;
  • Assicurarsi che il bambino abbia compreso la motivazione per cui non deve ripetere quel comportamento, il bambino non ha in mente tutte le motivazioni dell’adulto per cui non si può dare per scontato che ne abbia compreso tutte le conseguenze;
  • Utilizzare un tono autorevole e deciso;
  • Comunicare senza aggressività ed evitare modalità ricattatorie.

Il rimprovero deve promuovere un atteggiamento autocritico ed aumentare la consapevolezza, utilizzarlo con un’emotività molto alta (ad esempio in preda alla collera) favorisce nel bambino l’insorgenza di emozioni come la paura, la rabbia che non permettono la riflessione sui propri atteggiamenti e sulle motivazioni che li hanno generati.

Mamma, mi annoio…

aliceLa noia è uno stato di disagio abbastanza difficile da definire: percepiamo un malessere che faticosamente riusciamo a descrivere, un disagio a cui vogliamo mettere fine ma difficilmente sappiamo come. Ci si sente come sospesi, svogliati e la percezione del tempo si altera dandoci l’impressione che trascorra con fatica e lentezza.

Come tutte le emozioni, anche la noia ha una funzione e la proviamo per un motivo specifico, non è di per sé quindi un’emozione negativa. La nostra mente è alla continua ricerca di stimoli per aumentare la nostra conoscenza (vitale per il nostro adattamento), e nei momenti in cui il nostro sistema cognitivo si trova sprovvisto di stimoli nuovi ci segnala attraverso la noia che l’acquisizione di nuove conoscenze è a rischio.

Nonostante la loro curiosità e vitalità, anche i bambini sperimentano momenti di noia che spesso il genitore non sa come fronteggiare o si sente in dovere di gestire per porre fine al disagio del bambino. Questo disagio può manifestarsi per esempio attraverso un capriccio, una vaga lamentela o un senso di insoddisfazione di cui è difficile individuare la causa.

È importante aiutare il bambino ad identificare la noia come un’emozione e facilitare il suo riconoscimento, altrettanto importante è non adoperarsi per riempire il vuoto che il bambino prova sostituendosi a lui nella ricerca di un’attività da svolgere ma aiutarlo ad esplorare i suoi desideri e i suoi interessi. In questo modo si trasforma una situazione di disagio in un’opportunità di apprendere, provare nuove emozioni, stimolare la fantasia.

Qual è il miglior metodo educativo?

eduL’educazione dei bambini ha subito col tempo un notevole aumento dell’attenzione e molto spesso i genitori si documentano sempre più sui vari stili educativi e su quale sia il modo migliore per crescere i propri figli.

La crescente attenzione ai minimi aspetti delle scelte educative ha messo in dubbio uno dei detti popolari più famosi della “psicologia comune” come “Mazze e panelle fanno i figli belli”. Questo stile educativo è guidato dal principio teorico che vede la “punizione” come un possibile deterrente di comportamenti giudicati inopportuni. Ma è davvero così? È chiaro che tutti i genitori hanno come obiettivo il bene dei figli ma come si fa a capire se un metodo educativo è adeguato?

Ogni genitore dovrebbe tener conto che insieme al coniuge, rappresenta il primo modello attraverso cui il bambino impara. Da lui apprende non solo a parlare, a camminare e a giocare, ma impara un’abilità importantissima: stare in relazione. Stare in relazione con gli altri è una capacità che il bambino sperimenta a partire dagli adulti di riferimento e utilizza con i suoi pari e con gli altri, generalizzando il modello appreso che diventa una sorta di “schema”, un modo fisso di relazionarsi. Durante la crescita, i bambini mettono sicuramente a dura prova la pazienza degli adulti (continue richieste, insistenze, provocazioni) e di certo una “sberla” non è sinonimo di “non amore o cattiveria” del genitore. Se adesso facciamo un passo indietro, e torniamo al concetto di “apprendimento dall’adulto”, lo schiaffo presenta caratteristiche e soprattutto significati che paradossalmente non vorremmo che un bambino apprendesse. Nello specifico, i messaggi contenuti nello schiaffo sono:

  • La mamma o papà quando si arrabbiano possono farmi del male e quindi sono da temere (imparo ad aver paura di loro);
  • Siccome li temo non posso parlar loro di tutto, se si arrabbiano io rischio di star ancora peggio! (Non so con chi parlarne/devo rivolgermi ad altri);
  • Quando ci si arrabbia con qualcuno lo si può/deve picchiare;
  • Se picchio chi mi fa arrabbiare ottengo che lui smetta di fare ciò che mi infastidisce.

Ora, immaginate di utilizzare la sberla come strumento educativo. Ancora, immaginate che vostro figlio abbia picchiato un compagno a scuola durante un diverbio e che la maestra ve lo riferisca. Tornate a casa e, ovviamente, parlate dell’accaduto con il bambino. Come gli spiegate che non si fa e che non deve farlo più? In fondo voi con lui lo avete fatto e lui ha imparato che spaventare l’altro è il metodo più efficace per raggiungere l’obiettivo. Come risolvete la situazione? Come gli spiegate che voi potete farlo e lui no? Cosa ottiene il bambino da questa esperienza? Confusione, instabilità, mancanza di sicurezza nel genitore, errata previsione dei suoi comportamenti. Ecco quindi che l’incoerenza del genitore è una delle caratteristiche più pericolose nell’educazione dei figli.

Allora probabilmente ciò che conta è dialogare, spiegare, insegnare a gestire le emozioni già dalle piccole situazioni che ci vengono offerte quotidianamente in modo che il bambino impari a capire come si sente e apprenda dal genitore un modo funzionale per esprimere quell’emozione.

Un corretto stile educativo quindi, non insegna a risolvere i problemi con l’aggressività ma attraverso il dialogo, la comprensione delle motivazioni alla base dei comportamenti, il suggerimento di una strategia diversa per risolvere i problemi. Inoltre, essendo esseri sociali abbiamo bisogno degli altri nella nostra vita e imparare a “stare in relazione” è di fondamentale importanza. Stare in relazione insomma è una capacità inscritta nel nostro patrimonio genetico ma modellabile e plasmabile da chi ci insegna sin dai primi giorni di vita a stare al mondo.

Non possiamo quindi interrogarci sulla correttezza di un metodo educativo se non cerchiamo di analizzare il nostro modo di relazionarci con i figli, perché questo viene prima di tutto. Cerchiamo di soffermarci più sul “come” insegniamo, il “cosa” viene dopo.

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