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Sentirsi falliti: la profezia che si autoavvera

A molti sarà capitato di dire “ho fallito”, “mi sento un fallito” a seguito del mancato raggiungimento di un obiettivo o di uno scopo importante. Una delle convinzioni più profonde delle persone che percepiscono un fallimento è quella della mancanza assoluta di alternative: accade qualcosa che va contro le previsioni o si cerca in molti modi diversi e per tanto tempo di raggiungere un traguardo ma non si riesce nell’intento.

Ma perché ci etichettiamo come “falliti”?  Pensare di aver fallito equivale a rendere stabile e a peggiorare lo stato emotivo conseguente all’evento inatteso percepito come disastroso.

Naturalmente, le situazioni percepite come fallimenti generano emozioni negative come delusione, rabbia, tristezza, frustrazione e insoddisfazione, tutti sentimenti adeguati a seguito di esperienze che producono stress e richiedono grandi capacità di riorganizzare la propria vita. Ed è proprio credere nella capacità di poter superare l’evento e adattarsi ad un cambiamento che fa la differenza nella percezione di un fallimento. Sentirsi falliti ci impedisce di poter credere che sia possibile rimettersi in gioco e trovare soluzioni e alternative per gestire l’impatto di un evento spiacevole. È commettere l’errore di non guardare tutto ciò che nella vita abbiamo fatto o raggiunto a prescindere da un risultato negativo e giudicarci globalmente per un solo aspetto. Sentirsi falliti equivale a ritirarsi dalle occasioni di poter riparare per quanto possibile, evitare la possibilità di poter cambiare l’idea che se abbiamo fallito una o più volte siamo in generale incapaci o inadeguati, che se abbiamo fatto scelte sbagliate sono queste ultime ad essere errate, non noi. È la cosiddettaprofezia che si autoavvera: percepirsi falliti fa sì che ci si ritiri in un isolamento continuo dal resto del mondo convinti di non avere occasioni e di non saperle sfruttare. La mancanza di occasioni però, causata dall’isolamento e dal ritiro di qualunque investimento sull’esterno, non viene letta come una normale conseguenza di quest’ultimo ma come una conferma della propria convinzione di incapacità. Una trappola insomma. Percepirsi falliti equivale a privarsi della forza necessaria per aggirare o superare l’ostacolo, imparando comunque dall’esperienza, così come accade quando commettiamo errori più banali. Sentirsi falliti è dunque darsi un giudizio globale sulla propria autoefficacia, sulla propria capacità di fronteggiare gli eventi ed ha quindi inevitabilmente effetti sulla nostra autostima.

È molto importante accettare il fallimento come uno dei possibili eventi nella vita di una persona, l’accettazione spiana la strada per la seguente riorganizzazione della propria vita, cosa che non riusciamo a fare se permane il vissuto fallimentare.

Molto spesso sono proprio i nostri modi intendere la realtà che ci impediscono di reagire, questo spiega ad esempio perché una persona percepisce come fallimento un determinato evento e qualcun altro no.

Il modo in cui diamo senso e significato al mondo è molto importante perché da questo dipende il protrarsi della sofferenza o la capacità di rimettersi in gioco.

Raggiungere la meta e non sentirsi appagati: il popolo degli Insoddisfatti

images1L’insoddisfazione è un’emozione che si esprime attraverso una sensazione di malessere, malcontento generale che deriva dalla convinzione di essere distanti da un ideale prefissato. Più questa distanza è ampia, più intensa sarà l’emozione conseguente. Un esame più attento ci permette di scovare all’interno della generale insoddisfazione, una moltitudine di stati emotivi tra i quali sicuramente primeggia la delusione, un senso di insofferenza, irrequietezza, frustrazione e rabbia che spostano l’attenzione verso scenari non conquistati e non consentono di vivere il qui e ora. Questo vissuto emotivo si manifesta in vari ambiti tra i quali quello lavorativo e professionale (non avere il ruolo ambito), relazionale (non sentirsi amati abbastanza), esperienze e prospettive future di vita (non avere una vita stimolante e interessante). Ma qual è l’ingrediente segreto, cosa rende possibile il permanere dell’insoddisfazione e cosa può cronicizzarla fino a creare problematiche invalidanti come stati ansiosi e depressivi? A farla da padrone è l’utilizzo del paragone. Gli insoddisfatti utilizzano i paragoni in continuazione, quasi senza esserne consapevoli, una vera e propria forma mentis che adoperano per dare significato alla propria esperienza e che finisce per determinare i loro stati emotivi molto più di quanto credano. La gratificazione che provano al raggiungimento del loro obiettivo diviene molto più che passeggera, la sua permanenza è breve e l’autostima non può beneficiarne in modo funzionale. L’attenzione non viene incentrata sul successo raggiunto, che perde quasi di significato, ma sulla prossima tappa che bisogna conquistare, le energie non vengono ricaricate attraverso il meritato riposo ma impiegate nell’organizzazione del nuovo piano di azione.

Non ci si deve fermare mai.

L’insoddisfazione non dà tregua, si avverte il bisogno di mettere fine al disagio ma la strategia utilizzata per porvi rimedio è proprio quella che alimenta il problema e lo rende cronico.

L’insoddisfazione può avere conseguenze molto gravi, sono numerosissimi infatti i casi di sindromi ansiose e di depressione causati proprio da questa tendenza a leggere le situazioni e gli eventi attraverso “non è mai come dovrebbe essere”. Un tratto di personalità molto diffuso negli Insoddisfatti cronici è il perfezionismo, la convinzione cioè di poter arrivare non solo a traguardi sempre più ambiti, ma di farlo nel modo perfetto, quasi maniacale, impiegando le proprie risorse sulla prevenzione di qualunque tipo di imperfezione (che viene vista come danno) o deviazione dai propri ideali e standard e mostrando caratteristiche di estrema inflessibilità e pretese eccessive nei confronti degli altri che vengono giudicati inevitabilmente superficiali.

L’insoddisfazione è strettamente connessa con una delle 12 idee irrazionali descritte da Ellis in Reason and Emotion Psychotherapy (1962): “bisogna essere totalmente esperti, adatti ed efficienti in ogni situazione”. Gli Insoddisfatti quindi utilizzerebbero il paragone per capire quanto sono distanti dal proprio ideale di comportamento, prestazione, efficienza, obiettivo.

È purtroppo però un impianto teorico che vacilla, la prova di ciò sta nel fatto che non raggiungono mai la gratificazione, l’obiettivo reale dei loro affanni.

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