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L’importanza della lettura per i bambini

Fin dalla nascita il bambino ha una predisposizione innata ad ascoltare la voce umana, è anche attraverso questa infatti che impara a conoscere il mondo, a parlare e a comunicare.

È molto importante, fin dalla tenerissima età, dedicare alla lettura uno spazio adeguato prima di tutto perché, al di là dei numerosi benefici che un bambino trae da questa, leggere una storia è un momento di relazione e condivisione. Vuol dire stare insieme e canalizzare la propria attenzione verso l’altro, occuparsi di chi ascolta e ascoltare chi ci parla.

Quello che può sembrare un banale racconto di una fiaba o di una storia si configura come un potentissimo strumento di sviluppo che sempre più spesso oggi viene sottovalutato o sostituito con l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche come i tablet o la tv che però non possono in nessun modo competere con il valore del racconto di una fiaba. Leggere un libro vuol dire:

  • Promuovere lo sviluppo cognitivo e linguistico: la lettura arricchisce il vocabolario, migliora il lessico e le abilità verbali;
  • Aiutare il bambino ad aumentare il tempo di attenzione: la capacità attentiva è una facoltà molto complessa e fondamentale importanza nei processi di apprendimento. La lettura impegna il bambino a prolungare le sue capacità attentive e a selezionare ed elaborare una serie di stimoli forniti durante il racconto;
  • Contribuire allo sviluppo delle capacità immaginative: quello che vediamo in tv è uguale per tutti, quello che immaginiamo leggendo non può esserlo in nessun modo. La lettura contribuisce allo sviluppo delle capacità immaginative e creative, i paesaggi, i personaggi e gli eventi vengono costruiti e investiti di significati personali;
  • Contribuire allo sviluppo della capacità di comprendere il punto di vista altrui: i bambini sviluppano questa capacità a partire dai 4 anni. È un’abilità fondamentale che ci permette di poter stare in relazione con gli altri, comprendere i loro stati mentali e dare significato alle loro azioni e comportamenti;
  • Sviluppare la capacità di creare nessi logici/causali tra gli eventi: il bambino impara a conoscere la relazione tra gli eventi (causa-effetto) e questo gli consente di sviluppare la sua capacità previsionale;
  • Contribuire alla conoscenza delle emozioni: i personaggi vivono avventure e le avventure emozionano. I bambini imparano così a conoscere gli stati emotivi e riconoscersi ed immedesimarsi nei personaggi che li provano, l’adulto può spiegare, contenere le loro emozioni e rassicurarli.

Leggere una storia quindi, non vuol dire solo dar voce a un testo scritto. La lettura è un momento di incontro per condividere, provare emozioni, insegnare, apprendere e crescere. Insomma, tantissime potenzialità in uno dei più semplici e antichi strumenti cha abbiamo, privo di controindicazioni, ricco di valori e risorse.

SOS Emozioni: usarle invece di preoccuparsene

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Le emozioni sono lo strumento grazie al quale riusciamo ad essere consapevoli dei nostri bisogni e dei nostri scopi. Molto frequentemente capita però che le persone considerino le emozioni come segnali negativi, come eventi spiacevoli di cui liberarsi o disfarsi. Si tende cioè ad interpretare i fenomeni emotivi come:

  • Spiacevoli e insopportabili;
  • Eventi di cui vergognarsi;
  • Sensazioni che non vengono provate dagli altri;
  • Fenomeni da tenere sotto controllo.

Queste credenze sul mondo emotivo amplificano e innescano a loro volta un sovraccarico emotivo non indifferente: se ci giudichiamo per il fatto di provare sentimenti stiamo giudicando la natura umana e, con essa, una della caratteristiche più importanti della nostra capacità di adattamento. Come possiamo sapere se qualcosa è positivo o negativo per noi senza emozioni? Come faccio a sapere se un evento è piacevole o meno, se ho raggiunto o no uno scopo senza utilizzare le emozioni? In realtà ci emozioniamo tutti i giorni, e utilizziamo le emozioni per organizzare i nostri comportamenti: se siamo a casa sul divano e sbadigliamo, molto probabilmente prenderemo un libro o accenderemo la tv per cercare un programma interessante. Ma prendere il telecomando è un’azione che mettiamo in atto perché stiamo provando un’emozione, come per esempio la noia, che ci spinge a cercare un intrattenimento perché ci sentiamo privati di stimoli. Se stiamo per affrontare un esame universitario, ci sentiremo irrequieti, noteremo un’accelerazione del battito cardiaco e un aumento della sudorazione: il nostro scopo di superare l’esame è incerto e l’ansia ci fornisce l’attivazione necessaria a fronteggiare l’evento, siamo attenti, vigili, i nostri occhi e le nostre orecchie sono completamente allertati per guardare e ascoltare la il professore che ci interroga.

Usare le emozioni vuol dire rendersi consapevoli che il mondo emotivo può solo arricchirci e non toglierci benessere. Vuol dire riconoscere l’emozione che si prova e chiedersi il perché la si sta provando, quale bisogno c’è dietro e quale pensiero l’ha generata. Un atteggiamento passivo nei confronti delle emozioni invece ci fa sentire delle vittime: sentirsi vittima dell’ansia o della rabbia vuol dire non comprendere perché ci si senta così, sottovalutare il contenuto informativo che le emozioni ci portano e non aver imparato una modalità per gestirlo.

Sforzarsi di reprimere un’emozione invece di accettarla vuol dire essere all’oscuro del nostro sistema di significati: perché mi rattristo così tanto se un amico disdice un appuntamento? Perché parlare in pubblico mi fa sentire così in ansia? Se ci allontaniamo per un attimo dalle caratteristiche fisiologiche e comportamentali delle emozioni e ci spostiamo ad un livello superiore o sovraordinato, potremo divenire consapevoli che la tristezza che proviamo per l’appuntamento disdetto emerge in quanto l’appuntamento con l’amico significa per me che la mia compagnia è piacevole e il mio scopo di essere desiderabile dal punto di vista sociale viene così compromesso. Allo stesso modo, potrei comprendere che ogni volta che devo parlare in pubblico temo di fare una brutta figura e il mio scopo di essere all’altezza di tutte le situazioni potrebbe non essere raggiunto.

È molto importante identificare il nostro sistema di significati, le emozioni derivano proprio da quest’ultimo: se non le utilizziamo ma ci preoccupiamo di averle non conosceremo mai il nostro modo di dare significato agli eventi e al mondo. Ognuno di noi elabora i propri significati in base ad una serie di fattori tra cui le esperienze, gli insegnamenti della famiglia, la cultura. Molto spesso, le emozioni sono tanto più intense quanto più il nostro sistema di significati è inflessibile e assoluto.

Quando mamma e papà si separano…

sepLa separazione dei genitori è uno tra gli eventi più difficili da affrontare nella vita di un bambino. Diversamente da quello che si pensa però, la fine di un rapporto coniugale non interessa solo i genitori e i figli ma l’intero nucleo famigliare (nonni, zii ecc.), ogni persona coinvolta si trova perciò a dover elaborare le diverse emozioni che ne scaturiscono. La separazione è un processo di grande cambiamento e, come tale, innesca inevitabilmente una serie di grandi modificazioni di carattere psicologico, organizzativo e sociale. Così come ogni importante cambiamento porta nella vita di una persona una certa dose di stress, allo stesso modo la separazione si caratterizza come una fase di transizione, di passaggio da uno stato precedente, conosciuto, certo, ad uno nuovo, da conoscere, in cui la ricerca di un nuovo equilibrio può risultare lunga, difficile e problematica. Le emozioni in gioco sono intense: rabbia, colpa, vergogna e tristezza caratterizzano questo passaggio verso la disgregazione di un progetto originario di unione, coesione e complicità, non a caso il termine più utilizzato dai coniugi per descrivere il loro stato emotivo è “fallimento”.

L’interrogativo più frequente tra genitori in procinto di separarsi riguarda la modalità con cui comunicare ai figli la separazione, l’intento che li guida è sicuramente l’intenzione di non procurare loro dolore e sofferenza. In realtà non è possibile annunciare ai figli la separazione coniugale senza che provino dolore o sofferenza, i genitori sono i riferimenti più importanti per i bambini e il timore di perderli va sempre considerato, rassicurandoli che sebbene alcune cose nella loro vita cambieranno, l’amore che provano la mamma e il papà nei loro confronti è talmente grande che non può finire. È molto importante, per quanto difficile sia, comunicare la separazione ai bambini con un linguaggio semplice, adeguato alla loro età, spiegando loro che non vanno più d’accordo ma che questo non ha niente a che fare con loro, che non hanno colpe e non sono il motivo per cui hanno deciso di non vivere più insieme. Per quanto difficile sia, dire la verità è sempre la scelta migliore. È indispensabile la presenza di entrambi i genitori nel momento in cui viene comunicata la decisione di separarsi, un errore molto comune è infatti quello di lasciare che se ne occupi solo uno dei due: i bambini hanno bisogno di ascoltare entrambi i genitori e ricevere da tutti e due le rassicurazioni sul fatto che nessuno li abbandonerà.

Solitamente, le reazioni alla notizia della separazione sono molto simili a quelle che si osservano dopo la perdita di una persona cara:

  • rifiuto e rabbia: può capitare che il bambino si comporti come se non avesse compreso e accettato i cambiamenti di cui gli hanno parlato i genitori, può ad esempio voler evitare di parlarne o far finta che non stia succedendo niente. La rabbia può essere manifestata in vari modi e contesti come ad esempio la scuola, dove potrebbe verificarsi una diminuzione del rendimento o un atteggiamento di chiusura verso gli insegnanti e i compagno. È molto importante che gli insegnanti siano a conoscenza della situazione per poter offrire il loro supporto e comprensione;
  • tentativi di ristabilire la situazione precedente: può capitare che i bambini facciano di tutto per riavvicinare la mamma e il papà, che cerchino di convincerli a tornare insieme promettendo loro di essere più buoni. È indispensabile rassicurare il bambino sul fatto che la decisione di separarsi non è stata presa a causa sua, molto spesso infatti i bambini convivono con un pesante senso di colpa di essere stati la causa della separazione;
  • depressione, tristezza: solitamente queste emozioni si manifestano quando il bambino è divenuto consapevole che quel che sta accadendo è inevitabile, che non potrà più vivere la situazione precedente. La tristezza in questi casi può manifestarsi con apatia, svogliatezza, pianto frequente e isolamento.

È importante rassicurare il bambino che la sua famiglia non cesserà di esistere, che i suoi genitori si separano ma non li abbandoneranno, che i ritmi e le abitudini verranno conservati e mantenuti e che col passar del tempo pian piano si abitueranno alla nuova situazione.

È importante inoltre incoraggiare il bambino a esprimere le sue emozioni e i suoi pensieri. Essere ad esempio all’oscuro del fatto che pensi di essere il responsabile dei disaccordi dei propri genitori è emotivamente difficile da gestire, così come la paura dell’abbandono o di perdere l’amore del genitore che non vive con lui.

Siamo capaci di riconoscere le nostre emozioni?

Le emozioni sono fenomeni complessi che comportano cambiamenti sia psicologici che fisici in grado di influenzare pensieri e comportamenti. La loro funzione è altamente adattiva, ci informano infatti sul raggiungimento o meno dei nostri obiettivi e ci permettono di stare in relazione con gli altri.

Ma così come sono importanti per le nostre possibilità di sopravvivenza, allo stesso modo in alcuni casi possono drasticamente ridurla spingendoci ad adottare comportamenti pericolosi e disfunzionali.

Mentre alcune persone riescono senza difficoltà ad identificare il proprio stato emotivo (sanno cioè se sono felici, tristi, arrabbiate, deluse ecc.), altre mostrano una difficoltà nel riconoscimento dell’emozione che stanno provando (spesso tendono a sentirsi semplicemente “bene/male”) e non solo non riescono a darle un nome ma non ne riconoscono neanche i sintomi andando incontro ad uno stato di confusione generale che non permette loro di gestire il fenomeno emotivo. In effetti il primo passo per la gestione emotiva è proprio il riconoscimento di ciò che stiamo provando, ma come facciamo a riconoscere le emozioni? Possiamo contare su tre importanti indicatori:

1) L’aspetto cognitivo: quali pensieri/immagini/ricordi sono presenti nella nostra mente in un determinato momento?

2) L’aspetto comportamentale: quale azione vorremmo compiere, quale comportamento mettere in atto?

3) Le modificazioni interne o sensazioni.

Poniamo ad esempio che un amico disdica una cena a cui tenevamo tantissimo e cerchiamo di identificare l’emozione che stiamo provando in base ai tre aspetti di cui abbiamo appena parlato:

1) Pensiero: “Non gli importa nulla di me, avrà preferito una compagnia migliore della mia”

2) Comportamento: “Resto tutta la sera a casa, non voglio parlare con nessuno”

3) Perdita dell’appetito, spossatezza, pesantezza degli arti.

Mettendo insieme queste informazioni possiamo chiamare la nostra emozione “Tristezza”. Identificare l’emozione è molto importante perché ci permette di poterla gestire e regolare e questo vale anche quando veniamo a contatto con le emozioni di altre persone, basti pensare alla capacità che la mamma ha di poter discriminare il tipo di pianto del proprio bambino, se si tratta cioè di un pianto di fame, di rabbia, di paura ecc. L’identificazione emotiva ci rende in grado di poter anche prevedere le reazioni degli altri e poter prevedere come aiutarli a gestire le loro emozioni. È proprio l’intelligenza emotiva che ci rende in grado di sapere che se un nostro amico ad esempio è spaventato, una rassicurazione lo potrebbe tranquillizzare, così come congratularsi con qualcuno per un successo raggiunto aumenta in lui l’autostima e il senso di gratificazione.

Una volta identificata la propria emozione si passa a cercare di individuarne le possibili cause e conseguenze. Questo lavoro non è molto facile, spesso infatti siamo abituati ad attribuire la causa delle nostre emozioni a fenomeni esterni e ci interroghiamo poco su quali siano le vere cause dei nostri stati mentali.

Il riconoscimento emotivo quindi è la competenza di base che ci permette di poter gestire le nostre emozioni. Questo diminuisce la probabilità di poter sviluppare un disturbo psicologico (come ad esempio la depressione o i disturbi d’ansia) ed è un fattore molto importante nella costruzione e nel mantenimento delle nostre relazioni interpersonali. Del resto il concetto di benessere psicologico non implica l’assenza di emozioni negative ma la capacità di viverle e sfruttarle nel modo più funzionale, riuscire nel piano personale, professionale e relazionale senza farsi sopraffare dall’aspetto emotivo ma riuscendo ad utilizzarle per quello che sono: strumenti di conoscenza del nostro mondo.

Gelosia: tra prove d’amore e di debolezza

gelosia_patologiaNon è semplice dare una definizione della gelosia, è un’emozione che spesso viene riferita principalmente all’ambito delle relazioni sentimentali e di coppia. Ma questo non è l’unico terreno in cui si manifesta, la gelosia è nota tra fratelli, nei confronti di un amico o di un oggetto molto caro.

Aldilà degli ambiti in cui prende forma, la gelosia sembra essere un’emozione legata ad una perdita temuta o immaginaria di una relazione privilegiata con qualcuno o qualcosa, esprimerebbe il timore di non poter essere più la persona che detiene il privilegio di poter godere dell’esclusività di qualcuno e delle sue attenzioni.

Ma se tutte le emozioni hanno una specifica funzione e servono ad informarci sul raggiungimento o meno dei nostri scopi, a che serve la gelosia? Quale scopo la muove?

Da un punto di vista filogenetico, la gelosia sembra avere radici antichissime, il suo sviluppo si articolerebbe con la funzione di preservare un rapporto o una relazione con il partner nell’eventualità si configuri la possibilità che questi venga attratto e sottratto da un rivale. La gelosia, nelle sue componenti aggressive, avrebbe la specifica funzione di scoraggiare l’abbandono del compagno/a e intimorire il rivale. Questo garantirebbe di poter avere accanto il partner e assicurare un legame stabile ed utile alla conservazione della specie e alla sua sopravvivenza.

La gelosia può manifestarsi con diversi livelli di intensità. Quando non è eccessiva, ha la funzione di comunicare al partner quanto sia importante e amato ed è quindi funzionale alla consapevolezza del suo valore all’interno della relazione che porta alla gratificazione personale.

La gelosia può raggiungere però livelli di intensità molto pericolosi e portare a conseguenze disastrose e irreparabili. Questo accade quando il timore dell’abbandono del partner si configura come una possibilità molto vicina e presuppone l’idea che sia intollerabile vivere senza di lui. La perdita del partner inoltre, potrebbe rappresentare l’idea di non essere stato in grado di garantire la sua vicinanza e causare un tracollo dell’autostima e della percezione della propria autoefficacia. Questo attiverebbe lo sforzo di mobilitare numerose risorse nel tentativo di evitare di percepirsi deboli e/o perdenti e le conseguenze emotive che ne deriverebbero (tristezza, dolore, rabbia e senso di fallimento). Inevitabilmente si assiste però all’insorgenza di emozioni di ansia e angoscia, ovvero le emozioni che proviamo quando temiamo di non raggiungere uno scopo.

La gelosia, quando diventa patologica, interferisce in modo significativo nella vita dei due partner, crea una serie di stati mentali negativi da cui è difficile sottrarsi a causa della ridondanza del timore di perdita.

In questi casi, ricorrere all’aiuto di un professionista può essere molto utile. È opportuno infatti un lavoro sui meccanismi che stanno alla base del profondo timore di abbandono e sull’acquisizione di un maggior senso di sicurezza nelle relazioni interpersonali che, laddove precario, rischia di configurare esattamente lo scenario tanto temuto.

Bibliografia:

  • La cura delle emozioni in Terapia Cognitiva. A cura di M. Apparigliato, S. Lissandrom, Collana “Cognitivismo Clinico”, Alpes Italia, 2010.
  • Terapia della gelosia e dell’invidia, Edoardo Giusti, Monia Frandina, Sovera Edizioni, 2007

“Questione di principio”: quando la rigidità ci danneggia

sensounicoA quanti sarà capitato nella vita di dire o sentire: “Non mi importa, è una questione di principio”?

Spesso ci aggrappiamo a convinzioni che abbiamo appreso o che ci sono state trasmesse come se fosse l’unica alternativa che abbiamo, come se non ci fossero altri modi di affrontare il problema. Questo accade quando tendiamo a concepire la realtà unicamente così come appare ai nostri occhi, quando siamo convinti che il nostro modo di concepire un problema o una situazione sia l’unico giusto o adeguato e quindi l’unico da adottare e non prendiamo in considerazione altri punti di vista.

Nella vita, i principi morali sono molto importanti, li impariamo sin da piccoli e ci vengono trasmessi dalla cultura e dalla nostra famiglia. Hanno un enorme valore adattivo, guidano il nostro comportamento e facilitano le nostre relazioni.

Può accadere tuttavia che la coerenza verso il rispetto assoluto di un principio possa danneggiarci, ma non sempre ce ne rendiamo conto. Attenersi a un’idea, una convinzione o ad un progetto originario con assoluta fermezza non vuol dire essere “coerenti con sé stessi” bensì “rigidi”. Essere coerenti con sé stessi implica la consapevolezza di ciò che pensiamo, proviamo e delle conseguenze del nostro modo di comportarci. Essere rigidi invece ci fa guardare il mondo secondo una sola tonalità, non ci permette deviazioni dal percorso prefissato, la nostra esplorazione è condizionata e limitata. Il pensiero rigido è un tipo di pensiero povero, fondato su dogmi o verità immodificabili e di conseguenza poco produttivo, poco creativo.

È molto importante invece cercare di essere flessibili. La flessibilità ci permette di essere indulgenti, non solo verso gli altri ma anche verso noi stessi. Se adottiamo uno stile di pensiero caratterizzato da inflessibilità tenderemo a non perdonare gli altri ma neanche noi stessi e a giudicare ogni deviazione dai nostri schemi come pericolosa o fallimentare. Il nostro modo di stare in relazione risentirà spesso dell’insoddisfazione o frustrazione dell’altro per la nostra mancanza di elasticità.

Abbandonare un principio o una convinzione non vuol dire rinunciare a una parte della propria identità o essere dei traditori verso i propri valori, vuol dire al contrario arricchirsi, aggiornare la propria conoscenza e migliorarsi. Cambiare idea non è pericoloso, è al contrario molto importante ma di solito è ostacolato da emozioni di orgoglio, vergogna o colpa che spesso condizionano le nostre scelte e la nostra libertà decisionale.

Cerchiamo quindi di affrontare gli eventi di vita per come sono e non per come dovrebbero essere secondo noi. Non consideriamo il nostro modo di vedere il mondo come l’unico, chiediamo all’altro quale sia il suo, ricordiamoci che le relazioni sono enciclopedie di conoscenza.

Darwin ci ha lasciato un grande insegnamento: “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.

La rigidità impedisce il cambiamento. Se non c’è cambiamento risulta difficile non solo l’adattamento ma anche la possibilità di migliorarsi.

L’importanza dello stile assertivo

assertivitaL’assertività è la capacità di interagire con gli altri, in qualsiasi contesto relazionale, in modo efficace, adeguato, affermando i propri punti di vista o bisogni nel rispetto di quelli altrui. È un atteggiamento quindi molto lontano dalla passività e dall’aggressività che si collocano ai poli opposti dello stile di comunicazione e che risultano non efficaci e molto spesso dannosi.

Le persone con uno stile passivo hanno difficoltà ad esprimere i propri bisogni, desideri o punti di vista perché convinti che valgano meno o no siano importanti tanto quanto quelli degli altri. Le loro opinioni sono molto spesso influenzate e se divergono da quelle altrui vengono taciute o nascoste. Hanno un enorme difficoltà nel dire “no”.

Le persone con uno stile passivo hanno al contrario la tendenza a prevaricare gli altri concentrandosi unicamente sui propri bisogni e desideri, i loro scopi vengono spesso raggiunti con qualunque mezzo, uno di quelli più frequentemente utilizzati è la minaccia.

Le persone con uno stile assertivo invece, non hanno bisogno dell’aggressività per raggiungere i propri scopi ma utilizzano un tipo di comunicazione che facilita le loro relazioni nel pieno rispetto di sé stessi e degli altri. Le caratteristiche delle persone assertive sono:

  • fiducia nelle proprie capacità;
  • riconoscimento dei propri limiti e dei propri punti di forza;
  • rispetto e accettazione del punto di vista altrui;
  • capacità di chiedere scusa;
  • capacità di ascoltare l’altro non formulando giudizi;
  • capacità di cambiare opinione (compiere valutazioni più accurate e non soffermarsi sulla prima impressione);
  • capacità di dire “no” senza provare emozioni di colpa.

Lo stile assertivo quindi permette una comunicazione più efficace e funzionale, migliora le relazioni e apporta loro numerosi benefici.

Workaholism: la dipendenza da lavoro

lavoro-drogaIl termine “Workaholism” indica una patologia che si colloca tra le cosiddette “nuove dipendenze” e si riferisce all’incapacità di smettere di lavorare, utilizzando gli impegni e le attività allo stesso modo di una “sostanza”, accusando quindi veri e propri sintomi (irritabilità, depressione, ansia) nei momenti in cui non ci si sente impegnati nell’attività lavorativa. Il lavoro diventa una vera e propria ossessione che ha pesanti effetti sulla persona, primo fra tutti un isolamento progressivo dagli altri e un’indifferenza preoccupante verso tutti gli altri ambiti di vita non correlati al lavoro.

Questa sindrome però non viene sempre riconosciuta, anche perché viene spesso rinforzata dalla nostra società che apprezza e incentiva il super lavoratore, loda la sua efficienza e premia la sua iper-disponibilità contribuendo a consolidare in lui la percezione della sua assoluta indispensabilità, oltre ad accrescere la sua autostima e spingerlo verso l’assoluto perfezionismo.

Come si riconosce un lavoratore Workaholic? Alcuni dei sintomi sono i seguenti:

  • Eccessivo tempo dedicato al lavoro (almeno 12 ore al giorno);
  • Sintomi di astinenza quando non si può lavorare (ansia, attacchi di panico, disturbi dell’umore);
  • Preoccupazioni frequenti e ricorrenti su questioni lavorative;
  • Incapacità ad assentarsi dal lavoro anche per malattia;
  • Impoverimento della sfera relazionale e affettiva.

Di solito il dipendente da lavoro nega nel modo più assoluto di avere un problema. Questo è l’aspetto più allarmante: i familiari e colleghi che si mostrano preoccupati vengono derisi e allontanati, le relazioni sociali e affettive subiscono così gravi effetti (uno di questi ad esempio è il divorzio o la separazione).

Le cause del Workaholism possono essere svariate, di solito però una caratteristica comune è l’esser cresciuti in un ambiente che lega l’amore genitoriale all’eccellenza delle prestazioni, il bambino impara quindi che per essere accettato deve dare il massimo. La dipendenza da lavoro non è quindi una scelta consapevole ma una vera e propria necessità.

L’attaccamento al lavoro, quando è sano, è fonte di gratificazione personale, stimola la nostra crescita e ci spinge all’autorealizzazione. Se però facciamo dipendere il nostro valore personale unicamente ed esclusivamente da uno solo dei possibili ambiti della vita rischiamo di vivere in una costante tensione per paura di fallire (è come se puntassimo tutto il nostro patrimonio su un unico numero della roulette).

Il dipendente da lavoro deve abbracciare in sostanza un nuovo modo di percepire il suo valore personale, abolire la convinzione di valere in base a quanto produce, spostarsi verso una filosofia di vita che lo renda consapevole di dover lavorare per vivere e non il contrario.

Resilienza: piegarsi senza spezzarsi

resilienzaLa Resilienza è la capacità di fronteggiare eventi particolarmente difficili o stressanti facendo leva su una serie di abilità che dipendono in parte dall’individuo, in parte dall’ambiente o contesto sociale. Gli studi sulla Resilienza sono sicuramente di numero inferiore rispetto a quelli relativi all’origine della sofferenza, ma i meccanismi e le abilità che permettono di gestire una situazione emotivamente stressante stanno acquisendo un interesse sempre più grande.

Non bisogna confondere la resilienza con la sola capacità di controllare la situazione, questa infatti, seppur sicuramente funzionale e auspicabile, non richiama necessariamente uno dei suoi aspetti più importanti: la consapevolezza. Può capitare infatti che laddove vi sia un forte controllo venga meno la consapevolezza emotiva, facendo quindi tacere il vissuto emozionale e quindi una parte molto importante del nostro vivere.

La resilienza è invece l’unione di consapevolezza e controllo, è la capacità di non concepire il problema come qualcosa di insormontabile ma come un’opportunità di miglioramento e conoscenza di se stessi, una sfida della crisi alla ricerca di un nuovo modo di stare al mondo. È la capacità di essere flessibili, di pensare di rendere possibile un adattamento, di concepire il cambiamento come una parte inalienabile della nostra umanità. È la capacità di concepirsi come persone in grado di resistere preservando una visione del futuro priva di esiti catastrofici o certezze di insuccessi.

Cos’è l’ansia?

ansia-260x160L’ansia è un’emozione che sperimentiamo molte volte nel corso della vita. Nell’immaginario comune, l’ansia ha una caratteristica tendenzialmente negativa e spesso chi la prova pensa di non riuscire a dominarla o di non essere abbastanza “forte” o “razionale”. In questa concezione la cultura ha un ruolo abbastanza centrale, le società occidentali infatti continuano a promuovere e ad etichettare l’uomo forte come una persona estremamente razionale, che non prova emozioni e che non le esprime. In realtà l’ansia, come molte altre emozioni è utile per il nostro funzionamento ottimale, aumenta le nostre capacità durante le prestazioni e mobilita le risorse necessarie al loro svolgimento. Può accadere tuttavia di non riuscire a gestirla quando diventa troppo intensa e le nostre attività risultano gravemente danneggiate con effetti pesanti sul nostro modo di percepirci e quindi sulla nostra autostima. Questo però non la rende dannosa di per sé, l’ansia infatti diventa problematica quando non riesce ad essere gestita in modo funzionale, quando ci impedisce di raggiungere i nostri obiettivi, quando la percepiamo pericolosa e inopportuna con l’effetto di aumentarne l’intensità.

L’intensità di questa emozione e la sua frequenza dipendono da vari fattori psicologici. Individuarli diventa un’importante occasione per avere la possibilità di correggere i meccanismi responsabili dell’attivazione ansiosa che, laddove problematica, può portare ad una pesante limitazione del proprio benessere.

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