Categoria: <span>Psicopatologia</span>

Cos’è la manipolazione affettiva?

imagesDCGWLQTGLa manipolazione emotiva è una forma di comportamento volto al raggiungimento dei propri scopi attraverso l’induzione nell’altro di emozioni negative, tipicamente ansia, paura, timore di abbandono o senso di colpa, che non tiene dunque conto della volontà altrui ma solo della propria. Il tipo di comunicazione che sostiene la manipolazione affettiva è di carattere aggressivo, anche se a volte può essere mascherata dalle parole più dolci e affettuose.

Questo ricatto emotivo non si manifesta in tutte le relazioni perché è necessaria la presenza di alcune condizioni che lo rendono possibile, prima tra tutte il tipo di ruolo assunto dalle persone coinvolte nel rapporto: un manipolatore ha bisogno di una o più vittime da manipolare. Ciò vuol dire quindi che questa dinamica si mantiene e si protrae nel tempo perché in qualche modo i ruoli si rinforzano a vicenda: il manipolatore non tollera di non poter raggiungere il suo scopo, crede che l’unico modo per poterlo fare sia utilizzare l’emotività della vittima che a sua volta ha instaurato con lui un rapporto di dipendenza affettiva e quindi di bisogno di approvazione e ricerca di consenso.

Il rapporto quindi si mantiene attraverso uno sbilanciamento del potere a favore del manipolatore. La persona manipolata viene criticata, svalutata, i suoi bisogni e desideri non vengono tenuti minimamente in considerazione, il suo parere è di scarsa se non nulla rilevanza. Tutti a volte utilizziamo forme manipolatorie all’interno delle relazioni che possono essere più o meno sane o non nocive, ma come si distingue una manipolazione patologica? Quest’ultima si caratterizza per l’obbligo percepito da parte della persona manipolata a mettere in atto scelte o azioni non dettate dalla propria volontà o che vanno contro i propri principi etici e morali. Si parla di manipolazione patologica quando la fine del conflitto è resa possibile solo se la vittima adotta la stessa visione della realtà del manipolatore, solo se finisce per condividerla ammettendo di aver sbagliato e giustificando la rabbia dell’altro. Ma come si riconosce un manipolatore? La prima caratteristica è sicuramente la credenza di avere sempre ragione, il punto di vista altrui, se differisce dal proprio, non viene preso in considerazione ma criticato e svalutato. I problemi dell’altro o le difficoltà vengono sminuite con accuse di egocentrismo o bisogno di attenzione, ciò che è importante è il suo mondo e non quello altrui. Le frequenti esplosioni di rabbia o la negatività esasperata nei conflitti portano la vittima a preoccuparsi costantemente di non farlo arrabbiare per paura di ripercussioni, ogni conflitto diventa estenuante per cui la vittima “impara” a non esprimere opinioni o bisogni se pensa che possano sollevare problematiche nel manipolatore. Il manipolatore ha un assoluto bisogno di controllo e di potere, frequentemente manifesta tratti narcisistici/paranoidi di personalità che lo portano a non prendere in considerazione la possibilità di aver sbagliato ma ad addossare tutta la responsabilità all’altro che si vede sopraffatto e colpevolizzato. Frequentemente giudica globalmente le persone e non i loro comportamenti inducendo nell’altro il timore di essere “sbagliato”. Il suo bisogno di avere sempre ragione deriva da un senso di identità fondato sul bisogno di essere percepito come potente, superiore e quindi ammirabile e stimabile.

Nei casi più gravi questo tipo di rapporto sfocia nella violenza fisica e quindi nel maltrattamento della vittima che vive una situazione di angoscia continua e si percepisce in una trappola.

Una delle più tipiche situazioni di manipolazione affettiva consiste purtroppo nel concepire il comportamento del manipolatore come giusto e il proprio carico emotivo come “meritato”. È la più subdola e avvilente forma di plagio emotivo ed è purtroppo uno dei motivi sempre più frequenti per cui non si chiede aiuto.

Sentirsi falliti: la profezia che si autoavvera

A molti sarà capitato di dire “ho fallito”, “mi sento un fallito” a seguito del mancato raggiungimento di un obiettivo o di uno scopo importante. Una delle convinzioni più profonde delle persone che percepiscono un fallimento è quella della mancanza assoluta di alternative: accade qualcosa che va contro le previsioni o si cerca in molti modi diversi e per tanto tempo di raggiungere un traguardo ma non si riesce nell’intento.

Ma perché ci etichettiamo come “falliti”?  Pensare di aver fallito equivale a rendere stabile e a peggiorare lo stato emotivo conseguente all’evento inatteso percepito come disastroso.

Naturalmente, le situazioni percepite come fallimenti generano emozioni negative come delusione, rabbia, tristezza, frustrazione e insoddisfazione, tutti sentimenti adeguati a seguito di esperienze che producono stress e richiedono grandi capacità di riorganizzare la propria vita. Ed è proprio credere nella capacità di poter superare l’evento e adattarsi ad un cambiamento che fa la differenza nella percezione di un fallimento. Sentirsi falliti ci impedisce di poter credere che sia possibile rimettersi in gioco e trovare soluzioni e alternative per gestire l’impatto di un evento spiacevole. È commettere l’errore di non guardare tutto ciò che nella vita abbiamo fatto o raggiunto a prescindere da un risultato negativo e giudicarci globalmente per un solo aspetto. Sentirsi falliti equivale a ritirarsi dalle occasioni di poter riparare per quanto possibile, evitare la possibilità di poter cambiare l’idea che se abbiamo fallito una o più volte siamo in generale incapaci o inadeguati, che se abbiamo fatto scelte sbagliate sono queste ultime ad essere errate, non noi. È la cosiddettaprofezia che si autoavvera: percepirsi falliti fa sì che ci si ritiri in un isolamento continuo dal resto del mondo convinti di non avere occasioni e di non saperle sfruttare. La mancanza di occasioni però, causata dall’isolamento e dal ritiro di qualunque investimento sull’esterno, non viene letta come una normale conseguenza di quest’ultimo ma come una conferma della propria convinzione di incapacità. Una trappola insomma. Percepirsi falliti equivale a privarsi della forza necessaria per aggirare o superare l’ostacolo, imparando comunque dall’esperienza, così come accade quando commettiamo errori più banali. Sentirsi falliti è dunque darsi un giudizio globale sulla propria autoefficacia, sulla propria capacità di fronteggiare gli eventi ed ha quindi inevitabilmente effetti sulla nostra autostima.

È molto importante accettare il fallimento come uno dei possibili eventi nella vita di una persona, l’accettazione spiana la strada per la seguente riorganizzazione della propria vita, cosa che non riusciamo a fare se permane il vissuto fallimentare.

Molto spesso sono proprio i nostri modi intendere la realtà che ci impediscono di reagire, questo spiega ad esempio perché una persona percepisce come fallimento un determinato evento e qualcun altro no.

Il modo in cui diamo senso e significato al mondo è molto importante perché da questo dipende il protrarsi della sofferenza o la capacità di rimettersi in gioco.

SOS Emozioni: usarle invece di preoccuparsene

imagesP2HTISAE

Le emozioni sono lo strumento grazie al quale riusciamo ad essere consapevoli dei nostri bisogni e dei nostri scopi. Molto frequentemente capita però che le persone considerino le emozioni come segnali negativi, come eventi spiacevoli di cui liberarsi o disfarsi. Si tende cioè ad interpretare i fenomeni emotivi come:

  • Spiacevoli e insopportabili;
  • Eventi di cui vergognarsi;
  • Sensazioni che non vengono provate dagli altri;
  • Fenomeni da tenere sotto controllo.

Queste credenze sul mondo emotivo amplificano e innescano a loro volta un sovraccarico emotivo non indifferente: se ci giudichiamo per il fatto di provare sentimenti stiamo giudicando la natura umana e, con essa, una della caratteristiche più importanti della nostra capacità di adattamento. Come possiamo sapere se qualcosa è positivo o negativo per noi senza emozioni? Come faccio a sapere se un evento è piacevole o meno, se ho raggiunto o no uno scopo senza utilizzare le emozioni? In realtà ci emozioniamo tutti i giorni, e utilizziamo le emozioni per organizzare i nostri comportamenti: se siamo a casa sul divano e sbadigliamo, molto probabilmente prenderemo un libro o accenderemo la tv per cercare un programma interessante. Ma prendere il telecomando è un’azione che mettiamo in atto perché stiamo provando un’emozione, come per esempio la noia, che ci spinge a cercare un intrattenimento perché ci sentiamo privati di stimoli. Se stiamo per affrontare un esame universitario, ci sentiremo irrequieti, noteremo un’accelerazione del battito cardiaco e un aumento della sudorazione: il nostro scopo di superare l’esame è incerto e l’ansia ci fornisce l’attivazione necessaria a fronteggiare l’evento, siamo attenti, vigili, i nostri occhi e le nostre orecchie sono completamente allertati per guardare e ascoltare la il professore che ci interroga.

Usare le emozioni vuol dire rendersi consapevoli che il mondo emotivo può solo arricchirci e non toglierci benessere. Vuol dire riconoscere l’emozione che si prova e chiedersi il perché la si sta provando, quale bisogno c’è dietro e quale pensiero l’ha generata. Un atteggiamento passivo nei confronti delle emozioni invece ci fa sentire delle vittime: sentirsi vittima dell’ansia o della rabbia vuol dire non comprendere perché ci si senta così, sottovalutare il contenuto informativo che le emozioni ci portano e non aver imparato una modalità per gestirlo.

Sforzarsi di reprimere un’emozione invece di accettarla vuol dire essere all’oscuro del nostro sistema di significati: perché mi rattristo così tanto se un amico disdice un appuntamento? Perché parlare in pubblico mi fa sentire così in ansia? Se ci allontaniamo per un attimo dalle caratteristiche fisiologiche e comportamentali delle emozioni e ci spostiamo ad un livello superiore o sovraordinato, potremo divenire consapevoli che la tristezza che proviamo per l’appuntamento disdetto emerge in quanto l’appuntamento con l’amico significa per me che la mia compagnia è piacevole e il mio scopo di essere desiderabile dal punto di vista sociale viene così compromesso. Allo stesso modo, potrei comprendere che ogni volta che devo parlare in pubblico temo di fare una brutta figura e il mio scopo di essere all’altezza di tutte le situazioni potrebbe non essere raggiunto.

È molto importante identificare il nostro sistema di significati, le emozioni derivano proprio da quest’ultimo: se non le utilizziamo ma ci preoccupiamo di averle non conosceremo mai il nostro modo di dare significato agli eventi e al mondo. Ognuno di noi elabora i propri significati in base ad una serie di fattori tra cui le esperienze, gli insegnamenti della famiglia, la cultura. Molto spesso, le emozioni sono tanto più intense quanto più il nostro sistema di significati è inflessibile e assoluto.

Quali sono le basi per lo sviluppo psicologico del bambino?

images1Quando si parla di sviluppo psicologico del bambino si è soliti pensare alla qualità della sua infanzia come un elemento indispensabile ai fini del benessere psico-fisico. In effetti, possiamo pensare all’infanzia un po’ come alle fondamenta di un’opera architettonica: la stabilità della costruzione, la sua flessibilità e il suo equilibrio sono elementi indispensabili. La loro importanza però, non va confusa con la necessità di perfezione, questo sia perché la perfezione è un obiettivo irrealizzabile, sia perché stabilire il concetto di “infanzia perfetta” è molto difficile.

Winnicott, famoso psicoanalista inglese di stampo freudiano, ha avuto il merito di aver sfatato il mito o la credenza secondo cui la madre debba necessariamente essere perfetta per una sana crescita del proprio figlio e per non provocare a questi dei traumi. Winnicott sosteneva infatti che non occorre essere una madre infallibile, precisa, irreprensibile ma “sana e affettivamente presente”. Una madre quindi che si stanca, che è alle prese con le proprie difficoltà, che è preoccupata per una serie di motivazioni ma che nonostante tutto è capace di trasmettere amore e sicurezza, che è in grado di rispondere ai bisogni del proprio bambino, sintonizzandosi con le sue richieste.  Sono proprio le grosse carenze nella soddisfazione di questi bisogni a porre le basi per la nascita di problematiche nello sviluppo affettivo dei bambini. I bisogni del bambino non comprendono solo la cura dal punto di vista fisico, come ad esempio il bisogno di nutrizione. Le basi per un sano sviluppo psicologico del bambino passano attraverso i bisogni di:

  • Sicurezza: la sicurezza di un bambino piccolo è completamente nelle mani dell’adulto che si occupa di lui così come quindi la sua possibilità di sopravvivere o meno. Un bambino che cresce con la sensazione di sentirsi in pericolo sperimenta in continuazione un senso di vulnerabilità che condizionerà pesantemente le sue scelte, le sue relazioni, i suoi progetti di vita. È il caso dei maltrattamenti e degli abusi.
  • Autonomia: l’incoraggiamento all’autonomia è un tema molto importante. Questo bisogno, se frustrato, genera problematiche relative alla dipendenza dagli altri, al bisogno di approvazione e all’incapacità di operare scelte. Questo accade quando i genitori non incoraggiano l’autonomia del figlio e tendono a sostituirsi a lui o ad operare per lui scelte che è in grado di prendere da solo. D’altro canto vi sono genitori che invece incoraggiano l’autonomia del bambino non considerando il suo livello di sviluppo, la conseguenza è di nuovo un senso di inadeguatezza e frustrazione perché non ci si sente all’altezza di un compito assegnato.
  • Autostima: è la stima del valore personale che ciascuno di noi fa di sé stesso. Un bambino che non si sente amato è un bambino che trae la conclusione di “non valere”, di non essere quindi degno dell’amore e delle attenzioni altrui.
  • Bisogno di esprimersi: questo bisogno viene soddisfatto quando si incoraggia il bambino sin da piccolo ad esplorare i propri interessi, quando non ci si sostituisce a lui nell’individuare o stabilire le sue inclinazioni naturali ma lo si lascia sperimentare, quando lo si lascia libero di esprimere le proprie emozioni non inducendo in lui colpa, vergogna o ridicolizzazione.

Ecco quindi che non esistono regole perfette o precise da applicare. Questo perché non esiste un bambino uguale all’altro, così come non ci sono genitori identici nello stile educativo e affettivo. L’ambiente che circonda il bambino quindi, dovrebbe essere costituito innanzitutto dall’attenzione a questi bisogni, non dimenticando i propri e non colpevolizzandosi per il fatto di averli. Un bambino è sereno e felice quando si sente al sicuro, amato, quando sente vicine le figure di riferimento che lo incoraggiano ad esplorare l’ambiente e che sono emotivamente presenti, disponibili e accoglienti nel suo percorso di conoscenza del mondo.

Quando il corpo diventa un nemico: il Disturbo di Dismorfismo Corporeo

mirrorQuando si parla di disturbi legati alla percezione della propria immagine corporea, siamo soliti pensare ai disturbi alimentari, primo tra tutti l’anoressia. Se in effetti l’anoressia rappresenta il disturbo alimentare più conosciuto, spesso viene sottovalutata e in molti casi purtroppo non diagnosticata la presenza di un disturbo oggi sempre più diffuso ma al tempo stesso sconosciuto o sottovalutato: il Disturbo di Dismorfismo Corporeo o Dismorfofobia. Le persone con Disturbo di Dismorfismo Corporeo mostrano una percezione alterata della propria immagine corporea, una preoccupazione intensa per ciò che viene percepito come un difetto fisico che finisce per tramutarsi in una vera e propria ossessione. Il rimuginio e i tentativi di soluzione o “riparazione” del difetto hanno un pesante impatto sulla qualità della vita della persona. Il senso di vergogna per quella che viene percepita come una “deformità” può far sì che la vita relazionale si impoverisca a favore dell’isolamento sociale che riparerebbe dall’esposizione al giudizio altrui. Continue visite specialistiche, trattamenti chirurgici o estetici sono i tentativi di soluzione di quella che diventa una battaglia emotivamente estenuante: il proprio corpo è un nemico. L’esordio si colloca tendenzialmente tra i 15 e i 20 anni, il sesso femminile sarebbe quello più a rischio di sviluppare il disturbo. L’adolescenza sembra quindi l’età più a rischio, l’incremento dei casi di dismorfofobia negli ultimi anni potrebbe essere correlato all’estenuante ridondanza di modelli perfezionistici che vengono proposti dalla società: per essere belli, ricercati e vincenti bisogna corrispondere a degli specifici standard. Ecco che una qualsiasi deviazione dallo standard diviene motivo di sofferenza profonda perché in qualche modo simbolizza l’esclusione dalla cerchia dei “perfetti”, l’allontanamento dal gruppo a causa di un marchio di cui il corpo è portatore. Le parti del corpo maggiormente bersagliate sono diverse, comunemente però le ossessioni riguardano principalmente:

  • Naso
  • Pelle (colore della pelle, rughe, macchie, acne)
  • Asimmetrie del viso o di altre parti del corpo
  • Calvizie
  • Peso
  • Genitali

I sintomi tipici del Disturbo di Dismorfismo Corporeo sono:

  • Intensa preoccupazione per l’aspetto fisico
  • Ferma convinzione di avere un difetto/anomalia fisica
  • Ricerca di specchi per poter controllare l’aspetto fisico o evitamento del rispecchiamento
  • Frequenti richieste di rassicurazioni dagli altri sull’aspetto fisico
  • Convinzione che tutte le persone notino il difetto
  • Paragoni tra il proprio aspetto e quello degli altri
  • Evitamento di situazioni sociali per non esporsi al giudizio
  • Trattamenti estetici e/o chirurgici volti a correggere l’anomalia fisica

Se non diagnosticato e curato Disturbo di Dismorfismo Corporeo può cronicizzarsi e raggiungere livelli di gravità tali da causare altri disturbi psichiatrici come ad esempio depressione, ansia, abuso di sostanze e nei casi più estremi portare al suicidio che esprime il profondo malessere che si cela dietro la non accettazione del proprio corpo.

Ecco che chiedere aiuto e rivolgersi ad uno specialista è di fondamentale importanza. Nei casi di Disturbo di Dismorfismo Corporeo la valutazione globale che la persona ha di sé stessa (autostima) finisce per essere drasticamente influenzata da un unico fattore (il difetto) e diventa negativa a causa della grande discrepanza tra l’ideale e il reale percepito. Un po’ come quando pensiamo di essere dei falliti solo perché non abbiamo raggiunto un obiettivo e non guardiamo invece a tutti gli altri traguardi e successi raggiunti. A questo purtroppo però, si aggiunge una pericolosa convinzione tipica delle società moderne occidentali: l’unico strumento per ottenere successo è il corpo.

Questo disturbo simbolizza la relazione che abbiamo con il nostro corpo ed è estremamente importante occuparcene quando diventa la causa di disagi tanto profondi da invalidare la qualità della vita. Il nostro corpo è certamente una parte integrante della nostra identità ma non l’unica, la percezione di noi stessi dovrebbe basarsi su tanti altri fattori.

 

Quando mamma e papà si separano…

sepLa separazione dei genitori è uno tra gli eventi più difficili da affrontare nella vita di un bambino. Diversamente da quello che si pensa però, la fine di un rapporto coniugale non interessa solo i genitori e i figli ma l’intero nucleo famigliare (nonni, zii ecc.), ogni persona coinvolta si trova perciò a dover elaborare le diverse emozioni che ne scaturiscono. La separazione è un processo di grande cambiamento e, come tale, innesca inevitabilmente una serie di grandi modificazioni di carattere psicologico, organizzativo e sociale. Così come ogni importante cambiamento porta nella vita di una persona una certa dose di stress, allo stesso modo la separazione si caratterizza come una fase di transizione, di passaggio da uno stato precedente, conosciuto, certo, ad uno nuovo, da conoscere, in cui la ricerca di un nuovo equilibrio può risultare lunga, difficile e problematica. Le emozioni in gioco sono intense: rabbia, colpa, vergogna e tristezza caratterizzano questo passaggio verso la disgregazione di un progetto originario di unione, coesione e complicità, non a caso il termine più utilizzato dai coniugi per descrivere il loro stato emotivo è “fallimento”.

L’interrogativo più frequente tra genitori in procinto di separarsi riguarda la modalità con cui comunicare ai figli la separazione, l’intento che li guida è sicuramente l’intenzione di non procurare loro dolore e sofferenza. In realtà non è possibile annunciare ai figli la separazione coniugale senza che provino dolore o sofferenza, i genitori sono i riferimenti più importanti per i bambini e il timore di perderli va sempre considerato, rassicurandoli che sebbene alcune cose nella loro vita cambieranno, l’amore che provano la mamma e il papà nei loro confronti è talmente grande che non può finire. È molto importante, per quanto difficile sia, comunicare la separazione ai bambini con un linguaggio semplice, adeguato alla loro età, spiegando loro che non vanno più d’accordo ma che questo non ha niente a che fare con loro, che non hanno colpe e non sono il motivo per cui hanno deciso di non vivere più insieme. Per quanto difficile sia, dire la verità è sempre la scelta migliore. È indispensabile la presenza di entrambi i genitori nel momento in cui viene comunicata la decisione di separarsi, un errore molto comune è infatti quello di lasciare che se ne occupi solo uno dei due: i bambini hanno bisogno di ascoltare entrambi i genitori e ricevere da tutti e due le rassicurazioni sul fatto che nessuno li abbandonerà.

Solitamente, le reazioni alla notizia della separazione sono molto simili a quelle che si osservano dopo la perdita di una persona cara:

  • rifiuto e rabbia: può capitare che il bambino si comporti come se non avesse compreso e accettato i cambiamenti di cui gli hanno parlato i genitori, può ad esempio voler evitare di parlarne o far finta che non stia succedendo niente. La rabbia può essere manifestata in vari modi e contesti come ad esempio la scuola, dove potrebbe verificarsi una diminuzione del rendimento o un atteggiamento di chiusura verso gli insegnanti e i compagno. È molto importante che gli insegnanti siano a conoscenza della situazione per poter offrire il loro supporto e comprensione;
  • tentativi di ristabilire la situazione precedente: può capitare che i bambini facciano di tutto per riavvicinare la mamma e il papà, che cerchino di convincerli a tornare insieme promettendo loro di essere più buoni. È indispensabile rassicurare il bambino sul fatto che la decisione di separarsi non è stata presa a causa sua, molto spesso infatti i bambini convivono con un pesante senso di colpa di essere stati la causa della separazione;
  • depressione, tristezza: solitamente queste emozioni si manifestano quando il bambino è divenuto consapevole che quel che sta accadendo è inevitabile, che non potrà più vivere la situazione precedente. La tristezza in questi casi può manifestarsi con apatia, svogliatezza, pianto frequente e isolamento.

È importante rassicurare il bambino che la sua famiglia non cesserà di esistere, che i suoi genitori si separano ma non li abbandoneranno, che i ritmi e le abitudini verranno conservati e mantenuti e che col passar del tempo pian piano si abitueranno alla nuova situazione.

È importante inoltre incoraggiare il bambino a esprimere le sue emozioni e i suoi pensieri. Essere ad esempio all’oscuro del fatto che pensi di essere il responsabile dei disaccordi dei propri genitori è emotivamente difficile da gestire, così come la paura dell’abbandono o di perdere l’amore del genitore che non vive con lui.

“Disconnect to connect”: un video contro la dipendenza dalla tecnologia

Una delle più grandi compagnie di telecomunicazioni della Thailandia, la DTAC, ha realizzato uno spot intitolato “Disconnect to connect” con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza delle conseguenze di quella che al giorno d’oggi si profila come una delle nuove dipendenze dell’era moderna: l’utilizzo della tecnologia.

La connessione con il “mondo virtuale” sta diventando davvero un’esigenza e un bisogno difficilmente trascurabile, lo stile di vita, il comportamento e le scelte sembrano essere condizionati sempre più dal ricorso virtuale che interessa una popolazione molto vasta e sempre più spesso giovanissima. È abbastanza comune infatti osservare bambini che utilizzano uno strumento tecnologico per giocare sin dalla tenerissima età di 2/3 anni e genitori che incoraggiano e rinforzano questo comportamento, quasi fieri e orgogliosi delle capacità “precoci o prodigiose” dei loro figli, inconsapevoli però che di capacità prodigiose non si tratta di certo: saper utilizzare il tablet o i videogiochi fa parte di un processo di apprendimento che si adatta a ciò che offre l’ambiente di vita, prima si conosce, prima si impara.

Lo spot riprende persone completamente concentrate in qualche attività di natura tecnologica: chat, condivisione di foto, mail, utilizzo dei social network. Ciò che le accomuna è una cosa sola: la perdita della consapevolezza di tutto ciò che avviene nel presente, di ciò che accade nel mondo reale mentre si viaggia in quello virtuale. Il messaggio è dunque “Disconnettiti per collegarti”, dove il collegamento da favorire diviene quello con la realtà.

È superfluo dire che la tecnologia è un formidabile prodotto dell’intelligenza umana, che ha migliorato le condizioni di vita delle persone facilitandole su molti fronti e in molti campi. Non si può però non tener conto del rovescio della medaglia, dei suoi aspetti controproducenti e dell’impatto che un utilizzo scorretto del virtuale ha sulla vita dell’essere umano e sui suoi processi cognitivi ed emotivi.

Il nostro codice genetico racchiude una delle più importanti capacità per la nostra sopravvivenza: l’attitudine a stabilire delle relazioni sociali. Abbiamo bisogno degli altri per vivere e le capacità di relazionarsi sono tra gli apprendimenti più importanti della nostra vita, una scarsa qualità della vita relazionale ha infatti un pesantissimo impatto sul nostro benessere psicologico. Il paradosso della tecnologia appare dunque questo: viene utilizzata per comunicare meglio ma di fatto ci insegna a non comunicare bene.

Le abbreviazioni utilizzate negli sms o l’utilizzo di immagini per esprimere lo stato emotivo ci indirizzano verso la povertà di linguaggio e il mancato apprendimento di nuovi termini a tutto svantaggio della ricchezza del nostro vocabolario; il gioco virtuale ci impedisce il contatto visivo con l’altro, il movimento e l’esercizio fisico, la fantasia nel creare un gioco nuovo, la condivisione emotiva.

Una tecnologia che se usata scorrettamente insomma finisce col creare un bisogno, la necessità di essere utilizzata e uno stato di malessere se non è a disposizione.

Una tecnologia che nasce con lo scopo di avvicinarci a chi è lontano ma che pericolosamente ci allontana da chi ci è accanto.

Perché l’esercizio fisico incrementa il benessere psicologico?

L’attenimages301OOQELzione al concetto di “benessere” è nota già dai tempi più remoti. Giovenale, poeta latino vissuto nel primo secolo d.C. affermava nelle sue Satire “Mens sana in corpore sano” secondo la cosiddetta “concezione olistica” dell’uomo che concepisce il benessere come fondato sull’unione mente-corpo.

L’attenzione sempre più crescente agli aspetti psicologici relativi alle varie discipline sportive ha dato vita ad una serie di studi volti a ricercare i meccanismi neurobiologici responsabili dei benefici dell’esercizio fisico e delle modificazioni emotive e cognitive ad esso correlate.

Da una numerosa serie di studi sperimentali è emerso che l’esercizio fisico stimola la produzione di alcune sostanze chimiche nel cervello (in particolare la noradrenalina, implicata nelle reazioni di panico e stress) che facilitano il fronteggiamento dello stress e svolgono un ruolo protettivo nei confronti di emozioni come l’ansia.

Lo sport e l’attività fisica in generale svolgono un ruolo molto importante anche per il trattamento della depressione. Numerose ricerche hanno evidenziato una notevole riduzione della sintomatologia depressiva in soggetti che hanno svolto attività fisica in modo costante e continuativo per almeno tre mesi. Questo è reso possibile grazie alla produzione di due sostanze molto importati per il trattamento degli stati depressivi: le endorfine e l’acetilcolina, due molecole che per le loro proprietà ed effetti sul nostro sistema nervoso sono state definite come “ormoni della felicità”.

Non è da sottovalutare inoltre il ruolo che l’esercizio fisico ha sulla nostra autostima. La costanza nello svolgimento dell’attività fisica, aumenta una serie di prestazioni tra le quali la resistenza allo sforzo, la concentrazione, la memoria, l’autocontrollo. La percezione del miglioramento delle proprie capacità ha effetti importanti sull’autostima, migliora infatti la valutazione globale che facciamo su noi stessi e questo ha importanti effetti anche sui rapporti sociali.

Se da un lato quindi gli studi neurobiologici spiegano gli effetti dell’attività fisica sulla nostra mente, è importante anche sottolineare i numerosi benefici che il corpo trae dall’esercizio fisico. Tra questi i principali sono:

  • aumento della resistenza fisica e delle prestazioni;
  • aumento dell’efficienza dell’apparato scheletrico e cardiocircolatorio;
  • prevenzione di patologie cardiache;
  • prevenzione del diabete;
  • riduzione del colesterolo e dei trigliceridi.

È importante sottolineare che praticare attività fisica non significa necessariamente sottoporsi a pesanti ed estenuanti sessioni di allenamento ma scegliere la modalità di muoversi nel modo più adatto alle proprie esigenze, al proprio stile di vita, ai propri impegni ed orari lavorativi. Significa riuscire a ritagliare un piccolo spazio, almeno due volte alla settimana in cui prendersi cura del proprio benessere, in cui essere consapevoli di svolgere un’attività con l’unico scopo di trarne un beneficio per il corpo e per la mente, un momento in cui si sceglie di prendersi cura di sé e si decide che quell’oretta può essere sottratta alla routine quotidiana e dedicata ad uno degli aspetti che dovrebbero esserci più a cuore: la nostra salute.

La battaglia per metterli a nanna: le regole che possono aiutare

images

Molti genitori si trovano a dover affrontare il problema di riuscire a mettere a letto i propri bambini senza che questi facciano quotidianamente i capricci. Dopo una giornata di lavoro, questo momento risulta spesso come la goccia che fa traboccare il vaso, spesso emozioni di rabbia e colpa non fanno che peggiorare la situazione in un crescendo che sfinisce sia il genitore che il bambino.

Capire perché il bambino vada a letto contro voglia non è facile e richiede un’attenta analisi, non in tutti i casi infatti ci si trova di fronte ad una manifestazione di richiesta di vicinanza e attenzione o di poter continuare a giocare, a volte  si tratta di un vero e proprio disturbo del sonno che può manifestarsi attraverso una tempi di addormentamento eccessivamente lunghi, risvegli frequenti, stanchezza durante il giorno.

È importante monitorare il sonno dei propri bambini e, nei casi in cui si nota uno dei sintomi appena descritti, rivolgersi ad uno specialista per non cronicizzare gli effetti della mancanza di sonno regolare che si ripercuotono sul bambino, sui genitori ma anche sui fratellini che finiscono per non rievere più le attenzioni di cui hanno bisogno.

“Igiene del sonno” è l’espressione con cui si indicano funzionali modalità di comportamento che favoriscono il sonno e aiutano ad aumentarne l’efficienza, bisogna tener presente infatti che il sonno svolge importantissime funzioni sul nostro benessere ed è importante che la sua qualità mantenga un buon livello.

L’igiene del sonno parte dal controllo dei cosiddetti “fattori ambientali” che hanno un ruolo molto importante sia per l’addormentamento che per il mantenimento del sonno:

  • Evitare giochi troppo attivanti almeno tre ore prima dell’orario in cui il bambino va a letto;
  • Mantenere la temperatura della stanza intorno ai 20° C, temperature stroppo alte disturbano il sonno;
  • Non coprire mai troppo il bambino, il caldo potrebbe provocare risvegli;
  • L’ambiente dovrebbe essere tranquillo, poco luminoso e silenzioso.

È importante inoltre adottare una serie di regole a cui attenersi per favorire l’apprendimento di un sonno sano e ristoratore:

  • Non mettere mai a letto il bambino già addormentato: al suo risveglio si troverà in un posto diverso da quello in cui si è addormentato (in braccio, in macchina, nel letto dei genitori ecc.) e cercherà di ritrovarsi nelle stesse condizioni per riaddormentarsi;
  • L’orario di risveglio al mattino e di addormentamento serale devono essere mantenuti costanti, sempre alla stessa ora;
  • Se piange, avvicinarsi ma non riempirlo di troppe attenzioni, parlare con  voce bassa e calma, rassicurarlo con una carezza. Non mostrarsi allarmati o arrabbiati, il bambino è capace di leggere le emozioni sul viso del genitore e non si addormenterà facilmente se percepirà emozioni negative;
  • Alternarsi nel portare a letto il bambino: evita di creare un’esclusività con un solo genitore che impedisce l’addormentamento quando la stessa figura non è disponibile, non consente inoltre all’altro genitore di conoscere il rituale di addormentamento del bambino;
  • Promuovere l’attività fisica durante il giorno e non nelle ore serali;
  • Favorire una corretta associazione letto-sonno, evitare che il bambino giochi a letto o svolga altre attività;
  •  Non  usare il momento di andare a letto come una punizione, i bambini dovrebbero andare a letto senza “questioni irrisolte” che favoriscono il permanere di emozioni negative/attivanti. Influisce inoltre sulla corretta associazione letto-sonno;
  • Evitare sonnellini frequenti e troppo lunghi, dopo il primo anno di vita di solito si riducono a 2, a quattro anni ne basta uno e quando si arriva alla scuola elementare di solito non ne avverte il bisogno.

È bene comunque rivolgersi ad uno specialista quando le difficoltà di addormentamento e mantenimento del sonno tendono durare nel tempo. La tempestiva e corretta valutazione della problematica connessa al sonno consente di aiutare i genitori a gestire la situazione in maniera funzionale e al bambino di poter beneficiare di un sonno efficiente e ristoratore.

Siamo capaci di riconoscere le nostre emozioni?

Le emozioni sono fenomeni complessi che comportano cambiamenti sia psicologici che fisici in grado di influenzare pensieri e comportamenti. La loro funzione è altamente adattiva, ci informano infatti sul raggiungimento o meno dei nostri obiettivi e ci permettono di stare in relazione con gli altri.

Ma così come sono importanti per le nostre possibilità di sopravvivenza, allo stesso modo in alcuni casi possono drasticamente ridurla spingendoci ad adottare comportamenti pericolosi e disfunzionali.

Mentre alcune persone riescono senza difficoltà ad identificare il proprio stato emotivo (sanno cioè se sono felici, tristi, arrabbiate, deluse ecc.), altre mostrano una difficoltà nel riconoscimento dell’emozione che stanno provando (spesso tendono a sentirsi semplicemente “bene/male”) e non solo non riescono a darle un nome ma non ne riconoscono neanche i sintomi andando incontro ad uno stato di confusione generale che non permette loro di gestire il fenomeno emotivo. In effetti il primo passo per la gestione emotiva è proprio il riconoscimento di ciò che stiamo provando, ma come facciamo a riconoscere le emozioni? Possiamo contare su tre importanti indicatori:

1) L’aspetto cognitivo: quali pensieri/immagini/ricordi sono presenti nella nostra mente in un determinato momento?

2) L’aspetto comportamentale: quale azione vorremmo compiere, quale comportamento mettere in atto?

3) Le modificazioni interne o sensazioni.

Poniamo ad esempio che un amico disdica una cena a cui tenevamo tantissimo e cerchiamo di identificare l’emozione che stiamo provando in base ai tre aspetti di cui abbiamo appena parlato:

1) Pensiero: “Non gli importa nulla di me, avrà preferito una compagnia migliore della mia”

2) Comportamento: “Resto tutta la sera a casa, non voglio parlare con nessuno”

3) Perdita dell’appetito, spossatezza, pesantezza degli arti.

Mettendo insieme queste informazioni possiamo chiamare la nostra emozione “Tristezza”. Identificare l’emozione è molto importante perché ci permette di poterla gestire e regolare e questo vale anche quando veniamo a contatto con le emozioni di altre persone, basti pensare alla capacità che la mamma ha di poter discriminare il tipo di pianto del proprio bambino, se si tratta cioè di un pianto di fame, di rabbia, di paura ecc. L’identificazione emotiva ci rende in grado di poter anche prevedere le reazioni degli altri e poter prevedere come aiutarli a gestire le loro emozioni. È proprio l’intelligenza emotiva che ci rende in grado di sapere che se un nostro amico ad esempio è spaventato, una rassicurazione lo potrebbe tranquillizzare, così come congratularsi con qualcuno per un successo raggiunto aumenta in lui l’autostima e il senso di gratificazione.

Una volta identificata la propria emozione si passa a cercare di individuarne le possibili cause e conseguenze. Questo lavoro non è molto facile, spesso infatti siamo abituati ad attribuire la causa delle nostre emozioni a fenomeni esterni e ci interroghiamo poco su quali siano le vere cause dei nostri stati mentali.

Il riconoscimento emotivo quindi è la competenza di base che ci permette di poter gestire le nostre emozioni. Questo diminuisce la probabilità di poter sviluppare un disturbo psicologico (come ad esempio la depressione o i disturbi d’ansia) ed è un fattore molto importante nella costruzione e nel mantenimento delle nostre relazioni interpersonali. Del resto il concetto di benessere psicologico non implica l’assenza di emozioni negative ma la capacità di viverle e sfruttarle nel modo più funzionale, riuscire nel piano personale, professionale e relazionale senza farsi sopraffare dall’aspetto emotivo ma riuscendo ad utilizzarle per quello che sono: strumenti di conoscenza del nostro mondo.

Coronavirus – Vademecum Psicologico per i Cittadini

Il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) mette a disposizione dei cittadini che sono in casa per la pandemia una guida …

L’importanza del gioco simbolico per i bambini

Il gioco simbolico rappresenta una forma di gioco caratterizzato da “finzione”, dall’utilizzo di un oggetto che evoca …

Cos’è la manipolazione affettiva?

La manipolazione emotiva è una forma di comportamento volto al raggiungimento dei propri scopi attraverso l’induzione …