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Coronavirus – Vademecum Psicologico per i Cittadini

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Il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) mette a disposizione dei cittadini che sono in casa per la pandemia una guida per affrontare la situazione con un migliore atteggiamento psicologico e gestire lo stress legato a questa particolare condizione.

Puoi scaricare qui il pieghevole che è stato predisposto per fornire un orientamento psicologico per i cittadini, allo scopo di promuovere atteggiamenti più adeguati e responsabili.

Una appropriata percezione del rischio può aiutare a fronteggiare meglio la situazione ed a proteggere noi stessi e gli altri.

Il pieghevole non sostituisce un aiuto professionale, che in questi giorni può essere importante per molte persone.

Gli Psicologi sono informati sulle norme di protezione da seguire e possono effettuare interventi a distanza ogni volta che ciò sia opportuno.

Non ti vergognare di chiedere aiuto

Se pensi che la tua paura e ansia siano eccessive e ti creano disagio non avere timore di parlarne e chiedere aiuto ad un  professionista.

Gli Psicologi conoscono questi problemi e possono aiutarti in modo competente.

Fonte:  psy.it/psicologi-contro-la-paura

L’importanza del gioco simbolico per i bambini

game_bimboIl gioco simbolico rappresenta una forma di gioco caratterizzato da “finzione”, dall’utilizzo di un oggetto che evoca in realtà un altro significato e rappresenta quindi qualcos’altro. Si sviluppa a partire dal secondo anno di vita del bambino, dopo il gioco “sensomotorio” caratterizzato da esperienze sensoriali legate al tatto, all’udito (far cadere gli oggetti, far rumore) con cui il bambino effettua un tipo di conoscenza del mondo attraverso i suoi organi di senso.

Il gioco simbolico è un gioco che necessita di una maturazione cognitiva, a partire dai due anni infatti, i bambini acquisiscono la capacità di rappresentarsi mentalmente un oggetto anche se questo non è presente. Ecco quindi che azioni, oggetti, situazioni presenti vengono utilizzate “come se” fossero qualcos’altro, come se avessero un’altra funzione o un altro ruolo (ad es. utilizzare una scatola di cartone come una tana per un leone). Il gioco simbolico è di fondamentale importanza in quanto contribuisce in modo decisivo allo sviluppo del pensiero astratto ma aiuta anche il bambino nella conoscenza del complesso mondo emozionale in quanto permette, attraverso l’imitazione e l’identificazione, la sperimentazione di emozioni e di modelli relazionali.

È bene considerare quindi il gioco simbolico come una buona palestra che consente al tempo stesso allenamento e conoscenza. Nei programmi della scuola dell’infanzia il gioco simbolico ha un posto privilegiato ma dovrebbe acquistare la stessa importanza anche all’interno delle mura domestiche: mamma e papà che giocano a cucinare o ad essere un branco di leoni in una foresta o a guidare un’automobile costruita con il cartone, oltre a passare del tempo insieme ai loro bambini curando la relazione, stanno insegnando loro molto più di qualunque costosissimo gioco o videogame possa mai fare.

Cos’è la manipolazione affettiva?

imagesDCGWLQTGLa manipolazione emotiva è una forma di comportamento volto al raggiungimento dei propri scopi attraverso l’induzione nell’altro di emozioni negative, tipicamente ansia, paura, timore di abbandono o senso di colpa, che non tiene dunque conto della volontà altrui ma solo della propria. Il tipo di comunicazione che sostiene la manipolazione affettiva è di carattere aggressivo, anche se a volte può essere mascherata dalle parole più dolci e affettuose.

Questo ricatto emotivo non si manifesta in tutte le relazioni perché è necessaria la presenza di alcune condizioni che lo rendono possibile, prima tra tutte il tipo di ruolo assunto dalle persone coinvolte nel rapporto: un manipolatore ha bisogno di una o più vittime da manipolare. Ciò vuol dire quindi che questa dinamica si mantiene e si protrae nel tempo perché in qualche modo i ruoli si rinforzano a vicenda: il manipolatore non tollera di non poter raggiungere il suo scopo, crede che l’unico modo per poterlo fare sia utilizzare l’emotività della vittima che a sua volta ha instaurato con lui un rapporto di dipendenza affettiva e quindi di bisogno di approvazione e ricerca di consenso.

Il rapporto quindi si mantiene attraverso uno sbilanciamento del potere a favore del manipolatore. La persona manipolata viene criticata, svalutata, i suoi bisogni e desideri non vengono tenuti minimamente in considerazione, il suo parere è di scarsa se non nulla rilevanza. Tutti a volte utilizziamo forme manipolatorie all’interno delle relazioni che possono essere più o meno sane o non nocive, ma come si distingue una manipolazione patologica? Quest’ultima si caratterizza per l’obbligo percepito da parte della persona manipolata a mettere in atto scelte o azioni non dettate dalla propria volontà o che vanno contro i propri principi etici e morali. Si parla di manipolazione patologica quando la fine del conflitto è resa possibile solo se la vittima adotta la stessa visione della realtà del manipolatore, solo se finisce per condividerla ammettendo di aver sbagliato e giustificando la rabbia dell’altro. Ma come si riconosce un manipolatore? La prima caratteristica è sicuramente la credenza di avere sempre ragione, il punto di vista altrui, se differisce dal proprio, non viene preso in considerazione ma criticato e svalutato. I problemi dell’altro o le difficoltà vengono sminuite con accuse di egocentrismo o bisogno di attenzione, ciò che è importante è il suo mondo e non quello altrui. Le frequenti esplosioni di rabbia o la negatività esasperata nei conflitti portano la vittima a preoccuparsi costantemente di non farlo arrabbiare per paura di ripercussioni, ogni conflitto diventa estenuante per cui la vittima “impara” a non esprimere opinioni o bisogni se pensa che possano sollevare problematiche nel manipolatore. Il manipolatore ha un assoluto bisogno di controllo e di potere, frequentemente manifesta tratti narcisistici/paranoidi di personalità che lo portano a non prendere in considerazione la possibilità di aver sbagliato ma ad addossare tutta la responsabilità all’altro che si vede sopraffatto e colpevolizzato. Frequentemente giudica globalmente le persone e non i loro comportamenti inducendo nell’altro il timore di essere “sbagliato”. Il suo bisogno di avere sempre ragione deriva da un senso di identità fondato sul bisogno di essere percepito come potente, superiore e quindi ammirabile e stimabile.

Nei casi più gravi questo tipo di rapporto sfocia nella violenza fisica e quindi nel maltrattamento della vittima che vive una situazione di angoscia continua e si percepisce in una trappola.

Una delle più tipiche situazioni di manipolazione affettiva consiste purtroppo nel concepire il comportamento del manipolatore come giusto e il proprio carico emotivo come “meritato”. È la più subdola e avvilente forma di plagio emotivo ed è purtroppo uno dei motivi sempre più frequenti per cui non si chiede aiuto.

Sentirsi falliti: la profezia che si autoavvera

A molti sarà capitato di dire “ho fallito”, “mi sento un fallito” a seguito del mancato raggiungimento di un obiettivo o di uno scopo importante. Una delle convinzioni più profonde delle persone che percepiscono un fallimento è quella della mancanza assoluta di alternative: accade qualcosa che va contro le previsioni o si cerca in molti modi diversi e per tanto tempo di raggiungere un traguardo ma non si riesce nell’intento.

Ma perché ci etichettiamo come “falliti”?  Pensare di aver fallito equivale a rendere stabile e a peggiorare lo stato emotivo conseguente all’evento inatteso percepito come disastroso.

Naturalmente, le situazioni percepite come fallimenti generano emozioni negative come delusione, rabbia, tristezza, frustrazione e insoddisfazione, tutti sentimenti adeguati a seguito di esperienze che producono stress e richiedono grandi capacità di riorganizzare la propria vita. Ed è proprio credere nella capacità di poter superare l’evento e adattarsi ad un cambiamento che fa la differenza nella percezione di un fallimento. Sentirsi falliti ci impedisce di poter credere che sia possibile rimettersi in gioco e trovare soluzioni e alternative per gestire l’impatto di un evento spiacevole. È commettere l’errore di non guardare tutto ciò che nella vita abbiamo fatto o raggiunto a prescindere da un risultato negativo e giudicarci globalmente per un solo aspetto. Sentirsi falliti equivale a ritirarsi dalle occasioni di poter riparare per quanto possibile, evitare la possibilità di poter cambiare l’idea che se abbiamo fallito una o più volte siamo in generale incapaci o inadeguati, che se abbiamo fatto scelte sbagliate sono queste ultime ad essere errate, non noi. È la cosiddettaprofezia che si autoavvera: percepirsi falliti fa sì che ci si ritiri in un isolamento continuo dal resto del mondo convinti di non avere occasioni e di non saperle sfruttare. La mancanza di occasioni però, causata dall’isolamento e dal ritiro di qualunque investimento sull’esterno, non viene letta come una normale conseguenza di quest’ultimo ma come una conferma della propria convinzione di incapacità. Una trappola insomma. Percepirsi falliti equivale a privarsi della forza necessaria per aggirare o superare l’ostacolo, imparando comunque dall’esperienza, così come accade quando commettiamo errori più banali. Sentirsi falliti è dunque darsi un giudizio globale sulla propria autoefficacia, sulla propria capacità di fronteggiare gli eventi ed ha quindi inevitabilmente effetti sulla nostra autostima.

È molto importante accettare il fallimento come uno dei possibili eventi nella vita di una persona, l’accettazione spiana la strada per la seguente riorganizzazione della propria vita, cosa che non riusciamo a fare se permane il vissuto fallimentare.

Molto spesso sono proprio i nostri modi intendere la realtà che ci impediscono di reagire, questo spiega ad esempio perché una persona percepisce come fallimento un determinato evento e qualcun altro no.

Il modo in cui diamo senso e significato al mondo è molto importante perché da questo dipende il protrarsi della sofferenza o la capacità di rimettersi in gioco.

L’importanza della lettura per i bambini

Fin dalla nascita il bambino ha una predisposizione innata ad ascoltare la voce umana, è anche attraverso questa infatti che impara a conoscere il mondo, a parlare e a comunicare.

È molto importante, fin dalla tenerissima età, dedicare alla lettura uno spazio adeguato prima di tutto perché, al di là dei numerosi benefici che un bambino trae da questa, leggere una storia è un momento di relazione e condivisione. Vuol dire stare insieme e canalizzare la propria attenzione verso l’altro, occuparsi di chi ascolta e ascoltare chi ci parla.

Quello che può sembrare un banale racconto di una fiaba o di una storia si configura come un potentissimo strumento di sviluppo che sempre più spesso oggi viene sottovalutato o sostituito con l’utilizzo di strumentazioni tecnologiche come i tablet o la tv che però non possono in nessun modo competere con il valore del racconto di una fiaba. Leggere un libro vuol dire:

  • Promuovere lo sviluppo cognitivo e linguistico: la lettura arricchisce il vocabolario, migliora il lessico e le abilità verbali;
  • Aiutare il bambino ad aumentare il tempo di attenzione: la capacità attentiva è una facoltà molto complessa e fondamentale importanza nei processi di apprendimento. La lettura impegna il bambino a prolungare le sue capacità attentive e a selezionare ed elaborare una serie di stimoli forniti durante il racconto;
  • Contribuire allo sviluppo delle capacità immaginative: quello che vediamo in tv è uguale per tutti, quello che immaginiamo leggendo non può esserlo in nessun modo. La lettura contribuisce allo sviluppo delle capacità immaginative e creative, i paesaggi, i personaggi e gli eventi vengono costruiti e investiti di significati personali;
  • Contribuire allo sviluppo della capacità di comprendere il punto di vista altrui: i bambini sviluppano questa capacità a partire dai 4 anni. È un’abilità fondamentale che ci permette di poter stare in relazione con gli altri, comprendere i loro stati mentali e dare significato alle loro azioni e comportamenti;
  • Sviluppare la capacità di creare nessi logici/causali tra gli eventi: il bambino impara a conoscere la relazione tra gli eventi (causa-effetto) e questo gli consente di sviluppare la sua capacità previsionale;
  • Contribuire alla conoscenza delle emozioni: i personaggi vivono avventure e le avventure emozionano. I bambini imparano così a conoscere gli stati emotivi e riconoscersi ed immedesimarsi nei personaggi che li provano, l’adulto può spiegare, contenere le loro emozioni e rassicurarli.

Leggere una storia quindi, non vuol dire solo dar voce a un testo scritto. La lettura è un momento di incontro per condividere, provare emozioni, insegnare, apprendere e crescere. Insomma, tantissime potenzialità in uno dei più semplici e antichi strumenti cha abbiamo, privo di controindicazioni, ricco di valori e risorse.

SOS Emozioni: usarle invece di preoccuparsene

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Le emozioni sono lo strumento grazie al quale riusciamo ad essere consapevoli dei nostri bisogni e dei nostri scopi. Molto frequentemente capita però che le persone considerino le emozioni come segnali negativi, come eventi spiacevoli di cui liberarsi o disfarsi. Si tende cioè ad interpretare i fenomeni emotivi come:

  • Spiacevoli e insopportabili;
  • Eventi di cui vergognarsi;
  • Sensazioni che non vengono provate dagli altri;
  • Fenomeni da tenere sotto controllo.

Queste credenze sul mondo emotivo amplificano e innescano a loro volta un sovraccarico emotivo non indifferente: se ci giudichiamo per il fatto di provare sentimenti stiamo giudicando la natura umana e, con essa, una della caratteristiche più importanti della nostra capacità di adattamento. Come possiamo sapere se qualcosa è positivo o negativo per noi senza emozioni? Come faccio a sapere se un evento è piacevole o meno, se ho raggiunto o no uno scopo senza utilizzare le emozioni? In realtà ci emozioniamo tutti i giorni, e utilizziamo le emozioni per organizzare i nostri comportamenti: se siamo a casa sul divano e sbadigliamo, molto probabilmente prenderemo un libro o accenderemo la tv per cercare un programma interessante. Ma prendere il telecomando è un’azione che mettiamo in atto perché stiamo provando un’emozione, come per esempio la noia, che ci spinge a cercare un intrattenimento perché ci sentiamo privati di stimoli. Se stiamo per affrontare un esame universitario, ci sentiremo irrequieti, noteremo un’accelerazione del battito cardiaco e un aumento della sudorazione: il nostro scopo di superare l’esame è incerto e l’ansia ci fornisce l’attivazione necessaria a fronteggiare l’evento, siamo attenti, vigili, i nostri occhi e le nostre orecchie sono completamente allertati per guardare e ascoltare la il professore che ci interroga.

Usare le emozioni vuol dire rendersi consapevoli che il mondo emotivo può solo arricchirci e non toglierci benessere. Vuol dire riconoscere l’emozione che si prova e chiedersi il perché la si sta provando, quale bisogno c’è dietro e quale pensiero l’ha generata. Un atteggiamento passivo nei confronti delle emozioni invece ci fa sentire delle vittime: sentirsi vittima dell’ansia o della rabbia vuol dire non comprendere perché ci si senta così, sottovalutare il contenuto informativo che le emozioni ci portano e non aver imparato una modalità per gestirlo.

Sforzarsi di reprimere un’emozione invece di accettarla vuol dire essere all’oscuro del nostro sistema di significati: perché mi rattristo così tanto se un amico disdice un appuntamento? Perché parlare in pubblico mi fa sentire così in ansia? Se ci allontaniamo per un attimo dalle caratteristiche fisiologiche e comportamentali delle emozioni e ci spostiamo ad un livello superiore o sovraordinato, potremo divenire consapevoli che la tristezza che proviamo per l’appuntamento disdetto emerge in quanto l’appuntamento con l’amico significa per me che la mia compagnia è piacevole e il mio scopo di essere desiderabile dal punto di vista sociale viene così compromesso. Allo stesso modo, potrei comprendere che ogni volta che devo parlare in pubblico temo di fare una brutta figura e il mio scopo di essere all’altezza di tutte le situazioni potrebbe non essere raggiunto.

È molto importante identificare il nostro sistema di significati, le emozioni derivano proprio da quest’ultimo: se non le utilizziamo ma ci preoccupiamo di averle non conosceremo mai il nostro modo di dare significato agli eventi e al mondo. Ognuno di noi elabora i propri significati in base ad una serie di fattori tra cui le esperienze, gli insegnamenti della famiglia, la cultura. Molto spesso, le emozioni sono tanto più intense quanto più il nostro sistema di significati è inflessibile e assoluto.

Quali sono le basi per lo sviluppo psicologico del bambino?

images1Quando si parla di sviluppo psicologico del bambino si è soliti pensare alla qualità della sua infanzia come un elemento indispensabile ai fini del benessere psico-fisico. In effetti, possiamo pensare all’infanzia un po’ come alle fondamenta di un’opera architettonica: la stabilità della costruzione, la sua flessibilità e il suo equilibrio sono elementi indispensabili. La loro importanza però, non va confusa con la necessità di perfezione, questo sia perché la perfezione è un obiettivo irrealizzabile, sia perché stabilire il concetto di “infanzia perfetta” è molto difficile.

Winnicott, famoso psicoanalista inglese di stampo freudiano, ha avuto il merito di aver sfatato il mito o la credenza secondo cui la madre debba necessariamente essere perfetta per una sana crescita del proprio figlio e per non provocare a questi dei traumi. Winnicott sosteneva infatti che non occorre essere una madre infallibile, precisa, irreprensibile ma “sana e affettivamente presente”. Una madre quindi che si stanca, che è alle prese con le proprie difficoltà, che è preoccupata per una serie di motivazioni ma che nonostante tutto è capace di trasmettere amore e sicurezza, che è in grado di rispondere ai bisogni del proprio bambino, sintonizzandosi con le sue richieste.  Sono proprio le grosse carenze nella soddisfazione di questi bisogni a porre le basi per la nascita di problematiche nello sviluppo affettivo dei bambini. I bisogni del bambino non comprendono solo la cura dal punto di vista fisico, come ad esempio il bisogno di nutrizione. Le basi per un sano sviluppo psicologico del bambino passano attraverso i bisogni di:

  • Sicurezza: la sicurezza di un bambino piccolo è completamente nelle mani dell’adulto che si occupa di lui così come quindi la sua possibilità di sopravvivere o meno. Un bambino che cresce con la sensazione di sentirsi in pericolo sperimenta in continuazione un senso di vulnerabilità che condizionerà pesantemente le sue scelte, le sue relazioni, i suoi progetti di vita. È il caso dei maltrattamenti e degli abusi.
  • Autonomia: l’incoraggiamento all’autonomia è un tema molto importante. Questo bisogno, se frustrato, genera problematiche relative alla dipendenza dagli altri, al bisogno di approvazione e all’incapacità di operare scelte. Questo accade quando i genitori non incoraggiano l’autonomia del figlio e tendono a sostituirsi a lui o ad operare per lui scelte che è in grado di prendere da solo. D’altro canto vi sono genitori che invece incoraggiano l’autonomia del bambino non considerando il suo livello di sviluppo, la conseguenza è di nuovo un senso di inadeguatezza e frustrazione perché non ci si sente all’altezza di un compito assegnato.
  • Autostima: è la stima del valore personale che ciascuno di noi fa di sé stesso. Un bambino che non si sente amato è un bambino che trae la conclusione di “non valere”, di non essere quindi degno dell’amore e delle attenzioni altrui.
  • Bisogno di esprimersi: questo bisogno viene soddisfatto quando si incoraggia il bambino sin da piccolo ad esplorare i propri interessi, quando non ci si sostituisce a lui nell’individuare o stabilire le sue inclinazioni naturali ma lo si lascia sperimentare, quando lo si lascia libero di esprimere le proprie emozioni non inducendo in lui colpa, vergogna o ridicolizzazione.

Ecco quindi che non esistono regole perfette o precise da applicare. Questo perché non esiste un bambino uguale all’altro, così come non ci sono genitori identici nello stile educativo e affettivo. L’ambiente che circonda il bambino quindi, dovrebbe essere costituito innanzitutto dall’attenzione a questi bisogni, non dimenticando i propri e non colpevolizzandosi per il fatto di averli. Un bambino è sereno e felice quando si sente al sicuro, amato, quando sente vicine le figure di riferimento che lo incoraggiano ad esplorare l’ambiente e che sono emotivamente presenti, disponibili e accoglienti nel suo percorso di conoscenza del mondo.

Quando il corpo diventa un nemico: il Disturbo di Dismorfismo Corporeo

mirrorQuando si parla di disturbi legati alla percezione della propria immagine corporea, siamo soliti pensare ai disturbi alimentari, primo tra tutti l’anoressia. Se in effetti l’anoressia rappresenta il disturbo alimentare più conosciuto, spesso viene sottovalutata e in molti casi purtroppo non diagnosticata la presenza di un disturbo oggi sempre più diffuso ma al tempo stesso sconosciuto o sottovalutato: il Disturbo di Dismorfismo Corporeo o Dismorfofobia. Le persone con Disturbo di Dismorfismo Corporeo mostrano una percezione alterata della propria immagine corporea, una preoccupazione intensa per ciò che viene percepito come un difetto fisico che finisce per tramutarsi in una vera e propria ossessione. Il rimuginio e i tentativi di soluzione o “riparazione” del difetto hanno un pesante impatto sulla qualità della vita della persona. Il senso di vergogna per quella che viene percepita come una “deformità” può far sì che la vita relazionale si impoverisca a favore dell’isolamento sociale che riparerebbe dall’esposizione al giudizio altrui. Continue visite specialistiche, trattamenti chirurgici o estetici sono i tentativi di soluzione di quella che diventa una battaglia emotivamente estenuante: il proprio corpo è un nemico. L’esordio si colloca tendenzialmente tra i 15 e i 20 anni, il sesso femminile sarebbe quello più a rischio di sviluppare il disturbo. L’adolescenza sembra quindi l’età più a rischio, l’incremento dei casi di dismorfofobia negli ultimi anni potrebbe essere correlato all’estenuante ridondanza di modelli perfezionistici che vengono proposti dalla società: per essere belli, ricercati e vincenti bisogna corrispondere a degli specifici standard. Ecco che una qualsiasi deviazione dallo standard diviene motivo di sofferenza profonda perché in qualche modo simbolizza l’esclusione dalla cerchia dei “perfetti”, l’allontanamento dal gruppo a causa di un marchio di cui il corpo è portatore. Le parti del corpo maggiormente bersagliate sono diverse, comunemente però le ossessioni riguardano principalmente:

  • Naso
  • Pelle (colore della pelle, rughe, macchie, acne)
  • Asimmetrie del viso o di altre parti del corpo
  • Calvizie
  • Peso
  • Genitali

I sintomi tipici del Disturbo di Dismorfismo Corporeo sono:

  • Intensa preoccupazione per l’aspetto fisico
  • Ferma convinzione di avere un difetto/anomalia fisica
  • Ricerca di specchi per poter controllare l’aspetto fisico o evitamento del rispecchiamento
  • Frequenti richieste di rassicurazioni dagli altri sull’aspetto fisico
  • Convinzione che tutte le persone notino il difetto
  • Paragoni tra il proprio aspetto e quello degli altri
  • Evitamento di situazioni sociali per non esporsi al giudizio
  • Trattamenti estetici e/o chirurgici volti a correggere l’anomalia fisica

Se non diagnosticato e curato Disturbo di Dismorfismo Corporeo può cronicizzarsi e raggiungere livelli di gravità tali da causare altri disturbi psichiatrici come ad esempio depressione, ansia, abuso di sostanze e nei casi più estremi portare al suicidio che esprime il profondo malessere che si cela dietro la non accettazione del proprio corpo.

Ecco che chiedere aiuto e rivolgersi ad uno specialista è di fondamentale importanza. Nei casi di Disturbo di Dismorfismo Corporeo la valutazione globale che la persona ha di sé stessa (autostima) finisce per essere drasticamente influenzata da un unico fattore (il difetto) e diventa negativa a causa della grande discrepanza tra l’ideale e il reale percepito. Un po’ come quando pensiamo di essere dei falliti solo perché non abbiamo raggiunto un obiettivo e non guardiamo invece a tutti gli altri traguardi e successi raggiunti. A questo purtroppo però, si aggiunge una pericolosa convinzione tipica delle società moderne occidentali: l’unico strumento per ottenere successo è il corpo.

Questo disturbo simbolizza la relazione che abbiamo con il nostro corpo ed è estremamente importante occuparcene quando diventa la causa di disagi tanto profondi da invalidare la qualità della vita. Il nostro corpo è certamente una parte integrante della nostra identità ma non l’unica, la percezione di noi stessi dovrebbe basarsi su tanti altri fattori.

 

Quando mamma e papà si separano…

sepLa separazione dei genitori è uno tra gli eventi più difficili da affrontare nella vita di un bambino. Diversamente da quello che si pensa però, la fine di un rapporto coniugale non interessa solo i genitori e i figli ma l’intero nucleo famigliare (nonni, zii ecc.), ogni persona coinvolta si trova perciò a dover elaborare le diverse emozioni che ne scaturiscono. La separazione è un processo di grande cambiamento e, come tale, innesca inevitabilmente una serie di grandi modificazioni di carattere psicologico, organizzativo e sociale. Così come ogni importante cambiamento porta nella vita di una persona una certa dose di stress, allo stesso modo la separazione si caratterizza come una fase di transizione, di passaggio da uno stato precedente, conosciuto, certo, ad uno nuovo, da conoscere, in cui la ricerca di un nuovo equilibrio può risultare lunga, difficile e problematica. Le emozioni in gioco sono intense: rabbia, colpa, vergogna e tristezza caratterizzano questo passaggio verso la disgregazione di un progetto originario di unione, coesione e complicità, non a caso il termine più utilizzato dai coniugi per descrivere il loro stato emotivo è “fallimento”.

L’interrogativo più frequente tra genitori in procinto di separarsi riguarda la modalità con cui comunicare ai figli la separazione, l’intento che li guida è sicuramente l’intenzione di non procurare loro dolore e sofferenza. In realtà non è possibile annunciare ai figli la separazione coniugale senza che provino dolore o sofferenza, i genitori sono i riferimenti più importanti per i bambini e il timore di perderli va sempre considerato, rassicurandoli che sebbene alcune cose nella loro vita cambieranno, l’amore che provano la mamma e il papà nei loro confronti è talmente grande che non può finire. È molto importante, per quanto difficile sia, comunicare la separazione ai bambini con un linguaggio semplice, adeguato alla loro età, spiegando loro che non vanno più d’accordo ma che questo non ha niente a che fare con loro, che non hanno colpe e non sono il motivo per cui hanno deciso di non vivere più insieme. Per quanto difficile sia, dire la verità è sempre la scelta migliore. È indispensabile la presenza di entrambi i genitori nel momento in cui viene comunicata la decisione di separarsi, un errore molto comune è infatti quello di lasciare che se ne occupi solo uno dei due: i bambini hanno bisogno di ascoltare entrambi i genitori e ricevere da tutti e due le rassicurazioni sul fatto che nessuno li abbandonerà.

Solitamente, le reazioni alla notizia della separazione sono molto simili a quelle che si osservano dopo la perdita di una persona cara:

  • rifiuto e rabbia: può capitare che il bambino si comporti come se non avesse compreso e accettato i cambiamenti di cui gli hanno parlato i genitori, può ad esempio voler evitare di parlarne o far finta che non stia succedendo niente. La rabbia può essere manifestata in vari modi e contesti come ad esempio la scuola, dove potrebbe verificarsi una diminuzione del rendimento o un atteggiamento di chiusura verso gli insegnanti e i compagno. È molto importante che gli insegnanti siano a conoscenza della situazione per poter offrire il loro supporto e comprensione;
  • tentativi di ristabilire la situazione precedente: può capitare che i bambini facciano di tutto per riavvicinare la mamma e il papà, che cerchino di convincerli a tornare insieme promettendo loro di essere più buoni. È indispensabile rassicurare il bambino sul fatto che la decisione di separarsi non è stata presa a causa sua, molto spesso infatti i bambini convivono con un pesante senso di colpa di essere stati la causa della separazione;
  • depressione, tristezza: solitamente queste emozioni si manifestano quando il bambino è divenuto consapevole che quel che sta accadendo è inevitabile, che non potrà più vivere la situazione precedente. La tristezza in questi casi può manifestarsi con apatia, svogliatezza, pianto frequente e isolamento.

È importante rassicurare il bambino che la sua famiglia non cesserà di esistere, che i suoi genitori si separano ma non li abbandoneranno, che i ritmi e le abitudini verranno conservati e mantenuti e che col passar del tempo pian piano si abitueranno alla nuova situazione.

È importante inoltre incoraggiare il bambino a esprimere le sue emozioni e i suoi pensieri. Essere ad esempio all’oscuro del fatto che pensi di essere il responsabile dei disaccordi dei propri genitori è emotivamente difficile da gestire, così come la paura dell’abbandono o di perdere l’amore del genitore che non vive con lui.

“Disconnect to connect”: un video contro la dipendenza dalla tecnologia

Una delle più grandi compagnie di telecomunicazioni della Thailandia, la DTAC, ha realizzato uno spot intitolato “Disconnect to connect” con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza delle conseguenze di quella che al giorno d’oggi si profila come una delle nuove dipendenze dell’era moderna: l’utilizzo della tecnologia.

La connessione con il “mondo virtuale” sta diventando davvero un’esigenza e un bisogno difficilmente trascurabile, lo stile di vita, il comportamento e le scelte sembrano essere condizionati sempre più dal ricorso virtuale che interessa una popolazione molto vasta e sempre più spesso giovanissima. È abbastanza comune infatti osservare bambini che utilizzano uno strumento tecnologico per giocare sin dalla tenerissima età di 2/3 anni e genitori che incoraggiano e rinforzano questo comportamento, quasi fieri e orgogliosi delle capacità “precoci o prodigiose” dei loro figli, inconsapevoli però che di capacità prodigiose non si tratta di certo: saper utilizzare il tablet o i videogiochi fa parte di un processo di apprendimento che si adatta a ciò che offre l’ambiente di vita, prima si conosce, prima si impara.

Lo spot riprende persone completamente concentrate in qualche attività di natura tecnologica: chat, condivisione di foto, mail, utilizzo dei social network. Ciò che le accomuna è una cosa sola: la perdita della consapevolezza di tutto ciò che avviene nel presente, di ciò che accade nel mondo reale mentre si viaggia in quello virtuale. Il messaggio è dunque “Disconnettiti per collegarti”, dove il collegamento da favorire diviene quello con la realtà.

È superfluo dire che la tecnologia è un formidabile prodotto dell’intelligenza umana, che ha migliorato le condizioni di vita delle persone facilitandole su molti fronti e in molti campi. Non si può però non tener conto del rovescio della medaglia, dei suoi aspetti controproducenti e dell’impatto che un utilizzo scorretto del virtuale ha sulla vita dell’essere umano e sui suoi processi cognitivi ed emotivi.

Il nostro codice genetico racchiude una delle più importanti capacità per la nostra sopravvivenza: l’attitudine a stabilire delle relazioni sociali. Abbiamo bisogno degli altri per vivere e le capacità di relazionarsi sono tra gli apprendimenti più importanti della nostra vita, una scarsa qualità della vita relazionale ha infatti un pesantissimo impatto sul nostro benessere psicologico. Il paradosso della tecnologia appare dunque questo: viene utilizzata per comunicare meglio ma di fatto ci insegna a non comunicare bene.

Le abbreviazioni utilizzate negli sms o l’utilizzo di immagini per esprimere lo stato emotivo ci indirizzano verso la povertà di linguaggio e il mancato apprendimento di nuovi termini a tutto svantaggio della ricchezza del nostro vocabolario; il gioco virtuale ci impedisce il contatto visivo con l’altro, il movimento e l’esercizio fisico, la fantasia nel creare un gioco nuovo, la condivisione emotiva.

Una tecnologia che se usata scorrettamente insomma finisce col creare un bisogno, la necessità di essere utilizzata e uno stato di malessere se non è a disposizione.

Una tecnologia che nasce con lo scopo di avvicinarci a chi è lontano ma che pericolosamente ci allontana da chi ci è accanto.

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