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Perché l’esercizio fisico incrementa il benessere psicologico?

L’attenimages301OOQELzione al concetto di “benessere” è nota già dai tempi più remoti. Giovenale, poeta latino vissuto nel primo secolo d.C. affermava nelle sue Satire “Mens sana in corpore sano” secondo la cosiddetta “concezione olistica” dell’uomo che concepisce il benessere come fondato sull’unione mente-corpo.

L’attenzione sempre più crescente agli aspetti psicologici relativi alle varie discipline sportive ha dato vita ad una serie di studi volti a ricercare i meccanismi neurobiologici responsabili dei benefici dell’esercizio fisico e delle modificazioni emotive e cognitive ad esso correlate.

Da una numerosa serie di studi sperimentali è emerso che l’esercizio fisico stimola la produzione di alcune sostanze chimiche nel cervello (in particolare la noradrenalina, implicata nelle reazioni di panico e stress) che facilitano il fronteggiamento dello stress e svolgono un ruolo protettivo nei confronti di emozioni come l’ansia.

Lo sport e l’attività fisica in generale svolgono un ruolo molto importante anche per il trattamento della depressione. Numerose ricerche hanno evidenziato una notevole riduzione della sintomatologia depressiva in soggetti che hanno svolto attività fisica in modo costante e continuativo per almeno tre mesi. Questo è reso possibile grazie alla produzione di due sostanze molto importati per il trattamento degli stati depressivi: le endorfine e l’acetilcolina, due molecole che per le loro proprietà ed effetti sul nostro sistema nervoso sono state definite come “ormoni della felicità”.

Non è da sottovalutare inoltre il ruolo che l’esercizio fisico ha sulla nostra autostima. La costanza nello svolgimento dell’attività fisica, aumenta una serie di prestazioni tra le quali la resistenza allo sforzo, la concentrazione, la memoria, l’autocontrollo. La percezione del miglioramento delle proprie capacità ha effetti importanti sull’autostima, migliora infatti la valutazione globale che facciamo su noi stessi e questo ha importanti effetti anche sui rapporti sociali.

Se da un lato quindi gli studi neurobiologici spiegano gli effetti dell’attività fisica sulla nostra mente, è importante anche sottolineare i numerosi benefici che il corpo trae dall’esercizio fisico. Tra questi i principali sono:

  • aumento della resistenza fisica e delle prestazioni;
  • aumento dell’efficienza dell’apparato scheletrico e cardiocircolatorio;
  • prevenzione di patologie cardiache;
  • prevenzione del diabete;
  • riduzione del colesterolo e dei trigliceridi.

È importante sottolineare che praticare attività fisica non significa necessariamente sottoporsi a pesanti ed estenuanti sessioni di allenamento ma scegliere la modalità di muoversi nel modo più adatto alle proprie esigenze, al proprio stile di vita, ai propri impegni ed orari lavorativi. Significa riuscire a ritagliare un piccolo spazio, almeno due volte alla settimana in cui prendersi cura del proprio benessere, in cui essere consapevoli di svolgere un’attività con l’unico scopo di trarne un beneficio per il corpo e per la mente, un momento in cui si sceglie di prendersi cura di sé e si decide che quell’oretta può essere sottratta alla routine quotidiana e dedicata ad uno degli aspetti che dovrebbero esserci più a cuore: la nostra salute.

La battaglia per metterli a nanna: le regole che possono aiutare

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Molti genitori si trovano a dover affrontare il problema di riuscire a mettere a letto i propri bambini senza che questi facciano quotidianamente i capricci. Dopo una giornata di lavoro, questo momento risulta spesso come la goccia che fa traboccare il vaso, spesso emozioni di rabbia e colpa non fanno che peggiorare la situazione in un crescendo che sfinisce sia il genitore che il bambino.

Capire perché il bambino vada a letto contro voglia non è facile e richiede un’attenta analisi, non in tutti i casi infatti ci si trova di fronte ad una manifestazione di richiesta di vicinanza e attenzione o di poter continuare a giocare, a volte  si tratta di un vero e proprio disturbo del sonno che può manifestarsi attraverso una tempi di addormentamento eccessivamente lunghi, risvegli frequenti, stanchezza durante il giorno.

È importante monitorare il sonno dei propri bambini e, nei casi in cui si nota uno dei sintomi appena descritti, rivolgersi ad uno specialista per non cronicizzare gli effetti della mancanza di sonno regolare che si ripercuotono sul bambino, sui genitori ma anche sui fratellini che finiscono per non rievere più le attenzioni di cui hanno bisogno.

“Igiene del sonno” è l’espressione con cui si indicano funzionali modalità di comportamento che favoriscono il sonno e aiutano ad aumentarne l’efficienza, bisogna tener presente infatti che il sonno svolge importantissime funzioni sul nostro benessere ed è importante che la sua qualità mantenga un buon livello.

L’igiene del sonno parte dal controllo dei cosiddetti “fattori ambientali” che hanno un ruolo molto importante sia per l’addormentamento che per il mantenimento del sonno:

  • Evitare giochi troppo attivanti almeno tre ore prima dell’orario in cui il bambino va a letto;
  • Mantenere la temperatura della stanza intorno ai 20° C, temperature stroppo alte disturbano il sonno;
  • Non coprire mai troppo il bambino, il caldo potrebbe provocare risvegli;
  • L’ambiente dovrebbe essere tranquillo, poco luminoso e silenzioso.

È importante inoltre adottare una serie di regole a cui attenersi per favorire l’apprendimento di un sonno sano e ristoratore:

  • Non mettere mai a letto il bambino già addormentato: al suo risveglio si troverà in un posto diverso da quello in cui si è addormentato (in braccio, in macchina, nel letto dei genitori ecc.) e cercherà di ritrovarsi nelle stesse condizioni per riaddormentarsi;
  • L’orario di risveglio al mattino e di addormentamento serale devono essere mantenuti costanti, sempre alla stessa ora;
  • Se piange, avvicinarsi ma non riempirlo di troppe attenzioni, parlare con  voce bassa e calma, rassicurarlo con una carezza. Non mostrarsi allarmati o arrabbiati, il bambino è capace di leggere le emozioni sul viso del genitore e non si addormenterà facilmente se percepirà emozioni negative;
  • Alternarsi nel portare a letto il bambino: evita di creare un’esclusività con un solo genitore che impedisce l’addormentamento quando la stessa figura non è disponibile, non consente inoltre all’altro genitore di conoscere il rituale di addormentamento del bambino;
  • Promuovere l’attività fisica durante il giorno e non nelle ore serali;
  • Favorire una corretta associazione letto-sonno, evitare che il bambino giochi a letto o svolga altre attività;
  •  Non  usare il momento di andare a letto come una punizione, i bambini dovrebbero andare a letto senza “questioni irrisolte” che favoriscono il permanere di emozioni negative/attivanti. Influisce inoltre sulla corretta associazione letto-sonno;
  • Evitare sonnellini frequenti e troppo lunghi, dopo il primo anno di vita di solito si riducono a 2, a quattro anni ne basta uno e quando si arriva alla scuola elementare di solito non ne avverte il bisogno.

È bene comunque rivolgersi ad uno specialista quando le difficoltà di addormentamento e mantenimento del sonno tendono durare nel tempo. La tempestiva e corretta valutazione della problematica connessa al sonno consente di aiutare i genitori a gestire la situazione in maniera funzionale e al bambino di poter beneficiare di un sonno efficiente e ristoratore.

Siamo capaci di riconoscere le nostre emozioni?

Le emozioni sono fenomeni complessi che comportano cambiamenti sia psicologici che fisici in grado di influenzare pensieri e comportamenti. La loro funzione è altamente adattiva, ci informano infatti sul raggiungimento o meno dei nostri obiettivi e ci permettono di stare in relazione con gli altri.

Ma così come sono importanti per le nostre possibilità di sopravvivenza, allo stesso modo in alcuni casi possono drasticamente ridurla spingendoci ad adottare comportamenti pericolosi e disfunzionali.

Mentre alcune persone riescono senza difficoltà ad identificare il proprio stato emotivo (sanno cioè se sono felici, tristi, arrabbiate, deluse ecc.), altre mostrano una difficoltà nel riconoscimento dell’emozione che stanno provando (spesso tendono a sentirsi semplicemente “bene/male”) e non solo non riescono a darle un nome ma non ne riconoscono neanche i sintomi andando incontro ad uno stato di confusione generale che non permette loro di gestire il fenomeno emotivo. In effetti il primo passo per la gestione emotiva è proprio il riconoscimento di ciò che stiamo provando, ma come facciamo a riconoscere le emozioni? Possiamo contare su tre importanti indicatori:

1) L’aspetto cognitivo: quali pensieri/immagini/ricordi sono presenti nella nostra mente in un determinato momento?

2) L’aspetto comportamentale: quale azione vorremmo compiere, quale comportamento mettere in atto?

3) Le modificazioni interne o sensazioni.

Poniamo ad esempio che un amico disdica una cena a cui tenevamo tantissimo e cerchiamo di identificare l’emozione che stiamo provando in base ai tre aspetti di cui abbiamo appena parlato:

1) Pensiero: “Non gli importa nulla di me, avrà preferito una compagnia migliore della mia”

2) Comportamento: “Resto tutta la sera a casa, non voglio parlare con nessuno”

3) Perdita dell’appetito, spossatezza, pesantezza degli arti.

Mettendo insieme queste informazioni possiamo chiamare la nostra emozione “Tristezza”. Identificare l’emozione è molto importante perché ci permette di poterla gestire e regolare e questo vale anche quando veniamo a contatto con le emozioni di altre persone, basti pensare alla capacità che la mamma ha di poter discriminare il tipo di pianto del proprio bambino, se si tratta cioè di un pianto di fame, di rabbia, di paura ecc. L’identificazione emotiva ci rende in grado di poter anche prevedere le reazioni degli altri e poter prevedere come aiutarli a gestire le loro emozioni. È proprio l’intelligenza emotiva che ci rende in grado di sapere che se un nostro amico ad esempio è spaventato, una rassicurazione lo potrebbe tranquillizzare, così come congratularsi con qualcuno per un successo raggiunto aumenta in lui l’autostima e il senso di gratificazione.

Una volta identificata la propria emozione si passa a cercare di individuarne le possibili cause e conseguenze. Questo lavoro non è molto facile, spesso infatti siamo abituati ad attribuire la causa delle nostre emozioni a fenomeni esterni e ci interroghiamo poco su quali siano le vere cause dei nostri stati mentali.

Il riconoscimento emotivo quindi è la competenza di base che ci permette di poter gestire le nostre emozioni. Questo diminuisce la probabilità di poter sviluppare un disturbo psicologico (come ad esempio la depressione o i disturbi d’ansia) ed è un fattore molto importante nella costruzione e nel mantenimento delle nostre relazioni interpersonali. Del resto il concetto di benessere psicologico non implica l’assenza di emozioni negative ma la capacità di viverle e sfruttarle nel modo più funzionale, riuscire nel piano personale, professionale e relazionale senza farsi sopraffare dall’aspetto emotivo ma riuscendo ad utilizzarle per quello che sono: strumenti di conoscenza del nostro mondo.

Raggiungere la meta e non sentirsi appagati: il popolo degli Insoddisfatti

images1L’insoddisfazione è un’emozione che si esprime attraverso una sensazione di malessere, malcontento generale che deriva dalla convinzione di essere distanti da un ideale prefissato. Più questa distanza è ampia, più intensa sarà l’emozione conseguente. Un esame più attento ci permette di scovare all’interno della generale insoddisfazione, una moltitudine di stati emotivi tra i quali sicuramente primeggia la delusione, un senso di insofferenza, irrequietezza, frustrazione e rabbia che spostano l’attenzione verso scenari non conquistati e non consentono di vivere il qui e ora. Questo vissuto emotivo si manifesta in vari ambiti tra i quali quello lavorativo e professionale (non avere il ruolo ambito), relazionale (non sentirsi amati abbastanza), esperienze e prospettive future di vita (non avere una vita stimolante e interessante). Ma qual è l’ingrediente segreto, cosa rende possibile il permanere dell’insoddisfazione e cosa può cronicizzarla fino a creare problematiche invalidanti come stati ansiosi e depressivi? A farla da padrone è l’utilizzo del paragone. Gli insoddisfatti utilizzano i paragoni in continuazione, quasi senza esserne consapevoli, una vera e propria forma mentis che adoperano per dare significato alla propria esperienza e che finisce per determinare i loro stati emotivi molto più di quanto credano. La gratificazione che provano al raggiungimento del loro obiettivo diviene molto più che passeggera, la sua permanenza è breve e l’autostima non può beneficiarne in modo funzionale. L’attenzione non viene incentrata sul successo raggiunto, che perde quasi di significato, ma sulla prossima tappa che bisogna conquistare, le energie non vengono ricaricate attraverso il meritato riposo ma impiegate nell’organizzazione del nuovo piano di azione.

Non ci si deve fermare mai.

L’insoddisfazione non dà tregua, si avverte il bisogno di mettere fine al disagio ma la strategia utilizzata per porvi rimedio è proprio quella che alimenta il problema e lo rende cronico.

L’insoddisfazione può avere conseguenze molto gravi, sono numerosissimi infatti i casi di sindromi ansiose e di depressione causati proprio da questa tendenza a leggere le situazioni e gli eventi attraverso “non è mai come dovrebbe essere”. Un tratto di personalità molto diffuso negli Insoddisfatti cronici è il perfezionismo, la convinzione cioè di poter arrivare non solo a traguardi sempre più ambiti, ma di farlo nel modo perfetto, quasi maniacale, impiegando le proprie risorse sulla prevenzione di qualunque tipo di imperfezione (che viene vista come danno) o deviazione dai propri ideali e standard e mostrando caratteristiche di estrema inflessibilità e pretese eccessive nei confronti degli altri che vengono giudicati inevitabilmente superficiali.

L’insoddisfazione è strettamente connessa con una delle 12 idee irrazionali descritte da Ellis in Reason and Emotion Psychotherapy (1962): “bisogna essere totalmente esperti, adatti ed efficienti in ogni situazione”. Gli Insoddisfatti quindi utilizzerebbero il paragone per capire quanto sono distanti dal proprio ideale di comportamento, prestazione, efficienza, obiettivo.

È purtroppo però un impianto teorico che vacilla, la prova di ciò sta nel fatto che non raggiungono mai la gratificazione, l’obiettivo reale dei loro affanni.

Disturbi d’ansia: quali meccanismi li supportano?

ansia-260x160L’ansia è l’emozione che proviamo quando percepiamo una minaccia ad un nostro scopo. È un’emozione molto attivante, la sua funzione è quella di preparare il nostro corpo a reagire prontamente ad una minaccia o ad un pericolo, ci prepara quindi ad una possibile azione immediata. Così come un calciatore ha bisogno di riscaldare i muscoli prima di entrare in campo e iniziare a correre durante la partita, l’ansia attiva il nostro “riscaldamento” per poter affrontare la sfida contro chi mette a rischio la nostra vittoria. E’ importante quindi concepirla come un’emozione utile, funzionale e adattiva.

Ma cosa la trasforma in un nemico? Cosa accade quando interferisce in modo significativo con la qualità della nostra vita?

Perché questo accada e l’ansia dia vita ad un vero e proprio disturbo psicologico è necessario percepire lo scopo messo in pericolo come irrinunciabile, la propria capacità di fronteggiare la minaccia come scarsa o inadeguata e quindi una previsione di scarsa rimediabilità dell’evento temuto. Salkovskis (1996) ha riunito questi concetti in un’equazione:

Ansia = (gravità del pericolo x probabilità del pericolo) / (­­­­­­­­­­­­­­­­­capacità personale di rimediare x capacità personale di sopravvivere)

Un disturbo d’ansia deve la sua gravità e il suo mantenimento ad uno o più dei termini presenti all’interno di questa equazione che si irrigidiscono e diventano inflessibili. Nello specifico, le convinzioni alla base di un disturbo d’ansia sono:

  • Se si avverasse ciò che temo sarebbe devastante…
  • È molto probabile che ciò che temo si accada, quasi sicuro…
  • Quando accadrà non sarò in grado di affrontarlo…
  • Sarà terribile e impossibile continuare a vivere dopo che sarà accaduto…

Questo genera un altro indispensabile ingrediente che contribuisce non solo al mantenimento del disturbo ma anche alla crescita della sua intensità: il bisogno di controllo. Controllare gli eventi e tutte le possibili variabili appare come la soluzione a tutti i mali, come l’unico modo per scongiurare l’evento temuto. Questa convinzione ha però l’effetto di logorare le risorse dell’individuo che si convince di poter evitare le minacce utilizzando un controllo maggiore su tutto ciò che può interferire col raggiungimento del suo scopo. Il controllo però è possibile solo in parte, se esse stesso diventa uno scopo da perseguire per poter evitare possibili minacce o fallimenti la spesa emotiva diviene elevatissima, ed è proprio questo che ci segnala un disturbo d’ansia. Il nostro corpo si attiva in continuazione, la nostra mente è focalizzata su aspetti e conseguenze negative, il qui e ora diventa meno variopinto, la realtà viene scannerizzata in base ai suoi contenuti minacciosi, il bicchiere è inevitabilmente mezzo vuoto. Il rischio della prolungata permanenza di un disturbo d’ansia è quello di preparare un terreno fertile ad un’altra un’emozione spesso collegata, la depressione. Ecco che il futuro si spoglia di ogni prospettiva piacevole, se ci sentiamo condannati a dover schierare ogni giorno le nostre truppe vuol dire che stiamo considerando solo l’esistenza del nemico.

Ecco allora l’importanza di conoscere il nostro avversario, dargli un volto e costruire piani B. Questo non vuol dire arrendersi a lui, rinunciare alle proprie mete, ma fare strada con una visione meno catastrofica della sconfitta, degli ostacoli e della vita. Ridimensionare la minaccia e non sopravvalutare i segnali di pericolo sono fattori che aumentano la nostra percezione di autoefficacia. D’altronde, chi affronterebbe un nemico pericolosissimo pensando di non poter in nessun modo avere la meglio?

 

Bibliografia:

  • Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia. A cura di Sassaroli S., Lorenzini R., Ruggiero G.M., Raffaello Cortina Editore, 2006
  • La cura delle emozioni in Terapia Cognitiva. A cura di M. Apparigliato, S. Lissandrom, Collana “Cognitivismo Clinico”, Alpes Italia, 2010.

Gelosia: tra prove d’amore e di debolezza

gelosia_patologiaNon è semplice dare una definizione della gelosia, è un’emozione che spesso viene riferita principalmente all’ambito delle relazioni sentimentali e di coppia. Ma questo non è l’unico terreno in cui si manifesta, la gelosia è nota tra fratelli, nei confronti di un amico o di un oggetto molto caro.

Aldilà degli ambiti in cui prende forma, la gelosia sembra essere un’emozione legata ad una perdita temuta o immaginaria di una relazione privilegiata con qualcuno o qualcosa, esprimerebbe il timore di non poter essere più la persona che detiene il privilegio di poter godere dell’esclusività di qualcuno e delle sue attenzioni.

Ma se tutte le emozioni hanno una specifica funzione e servono ad informarci sul raggiungimento o meno dei nostri scopi, a che serve la gelosia? Quale scopo la muove?

Da un punto di vista filogenetico, la gelosia sembra avere radici antichissime, il suo sviluppo si articolerebbe con la funzione di preservare un rapporto o una relazione con il partner nell’eventualità si configuri la possibilità che questi venga attratto e sottratto da un rivale. La gelosia, nelle sue componenti aggressive, avrebbe la specifica funzione di scoraggiare l’abbandono del compagno/a e intimorire il rivale. Questo garantirebbe di poter avere accanto il partner e assicurare un legame stabile ed utile alla conservazione della specie e alla sua sopravvivenza.

La gelosia può manifestarsi con diversi livelli di intensità. Quando non è eccessiva, ha la funzione di comunicare al partner quanto sia importante e amato ed è quindi funzionale alla consapevolezza del suo valore all’interno della relazione che porta alla gratificazione personale.

La gelosia può raggiungere però livelli di intensità molto pericolosi e portare a conseguenze disastrose e irreparabili. Questo accade quando il timore dell’abbandono del partner si configura come una possibilità molto vicina e presuppone l’idea che sia intollerabile vivere senza di lui. La perdita del partner inoltre, potrebbe rappresentare l’idea di non essere stato in grado di garantire la sua vicinanza e causare un tracollo dell’autostima e della percezione della propria autoefficacia. Questo attiverebbe lo sforzo di mobilitare numerose risorse nel tentativo di evitare di percepirsi deboli e/o perdenti e le conseguenze emotive che ne deriverebbero (tristezza, dolore, rabbia e senso di fallimento). Inevitabilmente si assiste però all’insorgenza di emozioni di ansia e angoscia, ovvero le emozioni che proviamo quando temiamo di non raggiungere uno scopo.

La gelosia, quando diventa patologica, interferisce in modo significativo nella vita dei due partner, crea una serie di stati mentali negativi da cui è difficile sottrarsi a causa della ridondanza del timore di perdita.

In questi casi, ricorrere all’aiuto di un professionista può essere molto utile. È opportuno infatti un lavoro sui meccanismi che stanno alla base del profondo timore di abbandono e sull’acquisizione di un maggior senso di sicurezza nelle relazioni interpersonali che, laddove precario, rischia di configurare esattamente lo scenario tanto temuto.

Bibliografia:

  • La cura delle emozioni in Terapia Cognitiva. A cura di M. Apparigliato, S. Lissandrom, Collana “Cognitivismo Clinico”, Alpes Italia, 2010.
  • Terapia della gelosia e dell’invidia, Edoardo Giusti, Monia Frandina, Sovera Edizioni, 2007

La ricerca dell’approvazione degli altri: quando si teme la valutazione negativa

valuazioneIl bisogno dell’approvazione altrui nasce da alcune convinzioni su noi stessi che ci spingono ad anteporre alle nostre valutazioni quelle di altre persone a cui ci affidiamo al fine di non commettere errori e rischiare un giudizio negativo.

Ricercare il consenso degli altri, i complimenti e gli elogi non è in sé dannoso in senso assoluto, sapere di essere valutati in modo positivo accresce infatti la nostra autostima e il nostro senso di autoefficacia. Questa ricerca diventa però svantaggiosa e controproducente nel momento in cui si passa dal desiderio o dalla preferenza di una valutazione positiva all’assoluto bisogno o necessità che questa arrivi.

Generalmente, la necessità dell’approvazione altrui nasce da alcune convinzioni irrazionali, alcune di queste sono:

  • Devo essere sempre all’altezza in tutto ciò che faccio;
  • Se qualcuno mi giudica negativamente vuol dire che non valgo;
  • Devo chiedere sempre agli altri per essere sicuro di fare bene;
  • Non sono in grado di fare delle scelte, meglio chiedere a qualcuno di aiutarmi.

Molto spesso siamo vittime di un errore di valutazione secondo cui definiamo il valore di una persona in base ai suoi comportamenti. In realtà non è possibile definire in modo così semplicistico un essere umano, siamo troppo complessi e non essendo perfetti, riusciamo a fare molto bene alcune cose e meno bene altre. Definirci in base ai nostri successi o fallimenti non conviene, possiamo pensare di compiere azioni corrette ma come ci definiamo quando commettiamo un errore? E come definiamo un amico che ci fa un torto dopo anni di amicizia?

Il timore della valutazione negativa degli altri è inoltre mosso da un ulteriore errore di valutazione: concepire l’opinione altrui come una lettura del proprio valore personale. Il giudizio degli altri, positivo o negativo che sia, non ci definisce, ci informa solo di un’opinione o gusto altrui e ognuno di noi ha un complesso sistema di valutazioni e opinioni personali, come pretendere che coincidano tutte? Questo vuol dire che non è possibile essere valutati positivamente da tutti e che è molto più facile accettare un giudizio negativo che affannarsi a prevenirlo a tutti i costi.

Infine, affidarsi perennemente agli altri ci priva di un aspetto importantissimo della nostra vita: la libertà di scelta. Se non ci si focalizza sui propri desideri e bisogni e si prendono in considerazione solo le idee degli altri si rischia di crescere con un vago senso di identità e quindi con una scarsa consapevolezza delle proprie aspirazioni.

Si rischia di essere specialisti nella conoscenza dettagliata di ciò che vuole e pensa l’altro sapendo davvero poco di sé stessi.

L’errore come occasione di miglioramento

errare-300x214Siamo da sempre abituati a pensare all’errore come ad un evento negativo e questo ha portato inevitabilmente alla condanna di tutto ciò che comunemente rientra nell’ambito dell’insuccesso.

Un noto proverbio recita: “Sbagliando si impara” e in effetti l’insuccesso assume proprio questo valore, è un momento di apprendimento.

Il bambino impara a camminare proprio cadendo più volte, è così che migliora la sua capacità di stare in equilibrio, è così che impara a conoscere i movimenti che sono da evitare per non cadere nuovamente. L’errore assume quindi una notevole importanza in quanto:

  • È un momento di apprendimento;
  • Arricchisce la nostra esperienza;
  • Aumenta la nostra capacità predittiva;
  • Aggiorna la nostra conoscenza.

Ma cosa trasforma l’errore da momento costruttivo a evento negativo? Ciò che fa la differenza è la valutazione che ne facciamo e la tendenza a metterlo in relazione con l’autostima e l’efficacia personale. Se infatti poniamo che ci sia l’equivalenza tra le persone e le loro azioni, indubbiamente corriamo il rischio di percepirci negativamente nel momento in cui un nostro comportamento non raggiunge l’obiettivo per cui è stato messo in atto e questo può portare a provare emozioni come rabbia, colpa o vergogna. Un’altra variabile importante è costituita dalla credenza che la strada per il successo sia percorribile senza intoppi o imprevisti e che qualora dovessimo incontrarli vuol dire che non siamo stati bravi a fare delle previsioni accurate. Ma la vita è incertezza, una parte della realtà può essere prevedibile ma non possiamo controllarne tutti gli aspetti. Sbagliare inoltre è un diritto: essendo esseri umani e quindi imperfetti, abbiamo la possibilità di fare molto bene alcune cose e meno bene altre perché abbiamo dei limiti e siamo molto diversi l’uno dall’altro.

È più utile quindi non condannarci quando sbagliamo ma scegliere di concepire l’errore come un’occasione di miglioramento. Gli altri in fondo, contrariamente a quello che possiamo pensare, apprezzano maggiormente chi ammette i propri sbagli con serenità piuttosto che coloro che si auto colpevolizzano in continuazione o che, addirittura, ritengono di fare sempre le cose nel modo perfetto.

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo: la malattia degli scrupoli

docIl Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) appartiene alla grande categoria dei disturbi d’ansia, ha una prevalenza riscontrabile tra l’1% e il 3% della popolazione generale e necessita di interventi specifici che mirano a restituire alla persona che ne soffre la sensazione di poter continuare a vivere libera da quella che si caratterizza come una vera e propria schiavitù.

Questo disturbo si caratterizza per la presenza di ossessioni (pensieri, idee, immagini mentali, fantasie) e compulsioni, cioè comportamenti che la persona si sente in dovere di mettere in atto per gestire l’emotività innescata dal contenuto delle ossessioni. Le compulsioni finiscono per diventare dei veri e propri rituali, annientando il senso di libertà e invalidando molti ambiti di vita dell’individuo che finisce per sviluppare nella maggior parte dei casi un disturbo depressivo secondario.

Il DOC si manifesta attraverso alcune tipologie, alcune tra le più diffuse sono:

  • DOC da Controllo: eccessivi e ripetuti controlli che hanno una funzione rassicuratrice rispetto al dubbio di aver fatto (o poter fare) qualcosa di terribile;
  • DOC da Contaminazione: numerosi rituali atti a prevenire o scongiurare un contagio con qualche sostanza ritenuta infetta o potenzialmente dannosa. Le compulsioni sono caratterizzate da estenuanti rituali di lavaggio e sterilizzazione e possono portare la persona all’isolamento dal contesto sociale perché ritenuto pericoloso;
  • DOC di Ordine e simmetria: le persone che ne soffrono non tollerano nel modo più assoluto che gli oggetti (casa, ufficio) siano disposti in modo disordinato o asimmetrico. Molto tempo viene impiegato nella sistemazione degli oggetti (piegare, disporre secondo il colore, allineare), è un’attività che occupa un gran dispendio di energie e di tempo. È legata a tratti perfezionistici di personalità, le persone che ne soffrono hanno una grave difficoltà di “tolleranza” delle emozioni negative.
  • DOC da Superstizione: è caratterizzato da un pensiero eccessivamente superstizioso a cui seguono rituali che hanno l’obiettivo di scongiurare l’evento temuto. Esempi di questa tipologia di DOC sono: temere di pensare a un evento negativo e subito dopo dire una serie di parole sempre secondo uno stesso ordine sequenziale, vedere una cosa o persona che si pensi porti sfortuna e neutralizzarne l’effetto attraverso un conteggio o una preghiera, ecc.
  • DOC da Accumulo: le persone che ne soffrono accumulano una grande quantità di oggetti di cui non si sentono in grado di disfarsene. Questa difficoltà a separarsi dagli oggetti non riguarda solo quelli che hanno un valore sentimentale ma anche oggetti privi di significato. È un disturbo molto invalidante e molto spesso sono i familiari a chiedere aiuto a causa delle difficili condizioni di vita a cui sono costretti (mancanza di spazio in casa, precarie condizioni igieniche ecc.).

A molti sarà capitato di chiedersi “avrò chiuso la macchina?“, “avrò spento il gas?”, a molti altri invece sarà capitato di compiere un gesto scaramantico quando vede un gatto nero. Questo non basta certo a poter diagnosticare la presenza di un DOC.

Il DOC è una vera e propria trappola psicologica che limita drasticamente la libertà di chi ne soffre e di chi gli vive accanto. È l’incapacità di tollerare il dubbio e trasformare una probabilità in una certezza, è dare ai pensieri un’importanza eccessiva ed assoluta.

È molto importante rivolgersi ad un professionista e chiedere aiuto. Molto spesso le persone che soffrono di questo disturbo si sentono condannate ad una vita completamente scandita da rituali infiniti in cui progetti o scopi originari vengono sacrificati o drasticamente riformulati a favore di una schiavitù protratta nel tempo a cui si pensa di doversi rassegnare.

Sebbene fino agli anni ’70 le speranze di poter curare il DOC erano ridotte, sono stati compiuti notevoli progressi nella cura di questo disturbo ed oggi il DOC può essere curato con risultati efficaci e duraturi nel tempo.

Il trattamento di elezione è la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale che si è dimostrata particolarmente efficace alzando notevolmente la percentuale di guarigione che oggi seconda la letteratura arriva quasi all’80%.

“Questione di principio”: quando la rigidità ci danneggia

sensounicoA quanti sarà capitato nella vita di dire o sentire: “Non mi importa, è una questione di principio”?

Spesso ci aggrappiamo a convinzioni che abbiamo appreso o che ci sono state trasmesse come se fosse l’unica alternativa che abbiamo, come se non ci fossero altri modi di affrontare il problema. Questo accade quando tendiamo a concepire la realtà unicamente così come appare ai nostri occhi, quando siamo convinti che il nostro modo di concepire un problema o una situazione sia l’unico giusto o adeguato e quindi l’unico da adottare e non prendiamo in considerazione altri punti di vista.

Nella vita, i principi morali sono molto importanti, li impariamo sin da piccoli e ci vengono trasmessi dalla cultura e dalla nostra famiglia. Hanno un enorme valore adattivo, guidano il nostro comportamento e facilitano le nostre relazioni.

Può accadere tuttavia che la coerenza verso il rispetto assoluto di un principio possa danneggiarci, ma non sempre ce ne rendiamo conto. Attenersi a un’idea, una convinzione o ad un progetto originario con assoluta fermezza non vuol dire essere “coerenti con sé stessi” bensì “rigidi”. Essere coerenti con sé stessi implica la consapevolezza di ciò che pensiamo, proviamo e delle conseguenze del nostro modo di comportarci. Essere rigidi invece ci fa guardare il mondo secondo una sola tonalità, non ci permette deviazioni dal percorso prefissato, la nostra esplorazione è condizionata e limitata. Il pensiero rigido è un tipo di pensiero povero, fondato su dogmi o verità immodificabili e di conseguenza poco produttivo, poco creativo.

È molto importante invece cercare di essere flessibili. La flessibilità ci permette di essere indulgenti, non solo verso gli altri ma anche verso noi stessi. Se adottiamo uno stile di pensiero caratterizzato da inflessibilità tenderemo a non perdonare gli altri ma neanche noi stessi e a giudicare ogni deviazione dai nostri schemi come pericolosa o fallimentare. Il nostro modo di stare in relazione risentirà spesso dell’insoddisfazione o frustrazione dell’altro per la nostra mancanza di elasticità.

Abbandonare un principio o una convinzione non vuol dire rinunciare a una parte della propria identità o essere dei traditori verso i propri valori, vuol dire al contrario arricchirsi, aggiornare la propria conoscenza e migliorarsi. Cambiare idea non è pericoloso, è al contrario molto importante ma di solito è ostacolato da emozioni di orgoglio, vergogna o colpa che spesso condizionano le nostre scelte e la nostra libertà decisionale.

Cerchiamo quindi di affrontare gli eventi di vita per come sono e non per come dovrebbero essere secondo noi. Non consideriamo il nostro modo di vedere il mondo come l’unico, chiediamo all’altro quale sia il suo, ricordiamoci che le relazioni sono enciclopedie di conoscenza.

Darwin ci ha lasciato un grande insegnamento: “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.

La rigidità impedisce il cambiamento. Se non c’è cambiamento risulta difficile non solo l’adattamento ma anche la possibilità di migliorarsi.

Coronavirus – Vademecum Psicologico per i Cittadini

Il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) mette a disposizione dei cittadini che sono in casa per la pandemia una guida …

L’importanza del gioco simbolico per i bambini

Il gioco simbolico rappresenta una forma di gioco caratterizzato da “finzione”, dall’utilizzo di un oggetto che evoca …

Cos’è la manipolazione affettiva?

La manipolazione emotiva è una forma di comportamento volto al raggiungimento dei propri scopi attraverso l’induzione …